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domenica 12 settembre 2010

Il domani è in ritardo

La vita, con le sue divaricazioni impreviste (pur se prevedibili, con la logica della nottola di Minerva) mi ha tenuto lontano dall'aggiornamento del blog per un lasso di dieci giorni. Questo tempo - lo confesso a me stesso - non l'ho impiegato in maniera particolarmente proficua. Certo: ho preparato il progetto di ricerca (in modo un po' abborracciato, è vero, e pure con errori ortografici di cui ho vergogna) con cui mi presenterò al concorso per il dottorato tridentino, ma dopotutto c'è un senso di nonsocché, di insoddisfazione, che mi fa dubitare della qualità degli ultimi dieci giorni.
Epicuro mi invita a riflettere sul fatto che non importa vivere di più, quanto invece conta vivere meglio il tempo che si ha. Non riesco e forse non riuscirò mai ad essere epicureo fino in fondo, lo so bene.
Nessun movimento di auto-coscienza può abbassarmi al punto di dubitare delle caratteristiche profonde del mio essere; perciò voglio parlare d'altro, questa sera, e magari tornerò in futuro su quanto ora si lascia in sospeso.
Il tema del post scaturisce da una questione che mi ha posto Caterina Cavaliere, alcuni giorni fa su Facebook.
Costei mi ha scritto: "Dimmi, Marzio, siamo forse uomini soli?".
Sull'istante, non ho trovato cosa più giusta che risponderle usando la canzone dei Pooh, che certo manifesta il sentimento di impotenza che è figlio del tempo, col risvolto patetico che le forme odierne d'espressione offrono alle questioni umane, ridicole o serissime che siano. Dopo un paio di giorni, in cui ci ho pensato pochissimo ma in compenso ho letto pagine che mi hanno distratto, credo di aver trovato la via per arrivare a comprendere il problema in un orizzonte più vasto. Ero partito dalla supposizione che i classici del pensiero siano classici perché non perdono di attualità.
Ho cercato perciò una risposta in Eric Voegelin, ultimo grande filosofo della politica. La sua disamina dei movimenti gnostici moderni, quali sarebbero le ideologie che hanno imposto i propri idoli a discapito della vecchia e corruttibile tradizione, è brillante è geniale. Le sue accuse infuocate contro Marx, Nietzsche (gli manca Freud, purtroppo), che lui chiama "truffatori intellettuali", contribuiscono a concludere lo smascheramento di questi ciabattoni; smascheramento che già da un po' di tempo è in corso. Secondo Voegelin (Cfr. Il mito del mondo nuovo) è assai significativo che il pensiero greco non possa considerare una fine diversa, per Prometeo, che la condanna irrefutabile di Zeus, e il dileggiamento di contorno subito da Ermete. Prometeo ha trasgredito le leggi dell'ordine cosmico e sociale, e perciò subisce le conseguenze prescritte dalla Giustizia (che è con la maiuscola, perché l'unica giustizia che goda di una legittimità superiore all'umano). Alla base del movimento gnostico di cui Marx è invece l'artefice, vi è è il trionfo di Prometeo. Quest'ultimo riesce nel suo progetto sovversivo, frega il cosmo e gli déi, e finisce per distruggere un mondo che deve rifondare nuove istituzioni. Nasce così una nuova religione, che è religione dell'uomo, anch'essa con una episteme, con un proprio "divieto di fare domande", con delle verità che si fanno dogma, etcetera, con tutto quel che costituisce una vera e propria religione secolare.
Il marxismo, una volta divenuto tale, si crea la sua bella fetta di fanatici, di martiri, di esegeti ortodossi o eretici, un movimento politico che si fa totalitarismo e tutta la barbarie che segue. (E poi, infine, seguono dei coglioni che dicono che il povero Karl Marx non c'entrava nulla e che è stato frainteso).
Congiungiamo la questione degli uomini soli a questi illustri filosofi, Marx e Nietzsche. Non trovo risposta nel pensiero di questi autori, pur facendo uno sforzo. Forse, penso, questi non sono nemmeno dei classici. Che classici sono, se la storia condanna i loro devoti interpreti, e se non sono utili a insegnare qualcosa a quei giovani che nel mondo post-tutto brancolano nelle tenebre più oscure? Dobbiamo rottamarli (e con loro anche Comte e Freud), e seguire Voegelin nell'opera di ripensare la filosofia, e se si vuole, la storia della filosofia.
La dobbiamo ripensare come disciplina di auto-ordinamento del proprio io interiore. Soltanto così saremo padroni del proprio sé, saremo consci del significato del nostro essere-nel-mondo (termine heideggeriano) del nostro essere-soddisfatti (termine non heideggeriano), del nostro essere-sé stessi (termine forse non heideggeriano). La coscienza dell'essere soli può scoprirsi in questa maniera.
Certo, alla domanda di Caterina rispondo: siamo uomini soli, perché la vita ci vede nella veste di individuali. Siamo nati da soli e moriremo da soli. Forse vivremo soli a sprazzi, o non ce ne accorgeremo perché avremo la televisione accesa che ci illude di essere in compagnia. O magari sarà qualcuno che ci parla ma non ci ascolta a darci l'illusione di essere in compagnia. Ma in tutti questi casi, è chiara una cosa: che la questione della solitudine dipenderà sempre dalla coscienza che di essa si ha.
E' lo scarso dominio che l'uomo d'oggi ha del proprio sé, a causare l'insopportabilità della solitudine.
Riconoscerlo, tuttavia, è segno di sensibilità. Perciò è meglio accorgersi di esser soli anche quando si è circondati da persone distanti. (Ho cercato di tematizzare questo in un discorso del Cliente, ma poi ho scoperto di aver scritto male). Riscoprire il proprio sé porta una conclusione che apre al suo rovesciamento: scoprirsi soli nell'aspetto in cui l'individuo si rispecchia nel generale, comporta l'immediato scoprirsi raccolti in una condizione che trascende l'individualità, che ci incorpora in un disegno vasto e superiore, nel quale non esiste la solitudine che il semplice individuo conosce. Vi è qualcosa dello stesso passaggio che l'antica saggezza induista definisce come il movimento di congiunzione-immedesimazione tra Brahman e Atman.

Sono adesso le ore 1 di notte, penso di riprendere con più lucidità il discorso prossimamente, ma nel frattempo vado a stendere la biancheria appena uscita dalla lavatrice.