M'è difficile ricordare... Perché ancora più difficile è dimenticare.
(Non so bene cosa voglia dire, ma mentre aspetto che la bistecca di maiale sia pronta posso cogliere l'occasione per un nuovo post. Dopo una lunga assenza, ho deciso di mettere per iscritto qualcosa della mia meravigliosa esperienza odessana).
Panta Rei. Tutto se ne va, e produce un suono diverso a seconda dei momenti. Ora è un lento gorgogliare, ora invece è un tumulto roboante di emozioni voluminose e impegnative. L'attesa della cena è senz'altro il momento più adatto per concentrarsi per un minuto, in cerca della miglior forma con cui esprimere un'esperienza complessa.
Voglio davvero raccontare un'esperienza complessa? No. A pensarci bene, il tempo della vita è troppo breve per cercare la spiegazione per cose simili. Mi accontento allora delle cose semplici, che si snocciolano nella lista della spesa, e poi lasciano tutto all'immaginazione (e dunque al libero arbitrio che in maniere imprescrivibili circoscrive lo sterminato orizzonte semantico delle parole, delle lettere, ma pure della punteggiatura).
Sono tornato in Irlanda solo due giorni fa, e quella città di mare, lontana per cultura e per storia, continua ad evocare in me ricordi e belle memoria. E' una città greca, indubbiamente il suo nome ha la stessa origine di quello del protagonista del secondo poema omerico.
Sono arrivato a Odessa il 2 luglio, alle 10 e mezzo di sera. Viaggio con poco comfort: sono partito al mattino da Shannon, sono arrivato a London Gatwick e lì ho dovuto aspettare per tre ore il volo per Kiev. Nella capitale ucraina l'aereo è arrivato con notevole ritardo, pensavo di aver già perso il volo di coincidenza per Odessa ma in realtà questo era ancora più in ritardo, sicché tutto è andato bene.
All'aeroporto della città greca era presente una ragazza della scuola di lingue ad aspettarmi, col cartello e il mio nome sopra. Evgenia mi ha accompagnato in macchina all'appartamento in Uspenskaya al numero 9. Bell'appartamento, palazzo neoclassico dai soffitti alti più di tre metri. Mura tappezzate di verde, tutto riflette un gusto borghese che nel corso dell'ultimo secolo non ha visto il minimo intervento di manutenzione. Di questo ne riparlo tra un po'.
Ho subito incontrato il primo dei miei coinquilini, il tedesco Stephan. Gli ho chiesto se c'erano negozi aperti nelle vicinanze, perché avevo fame e volevo comprare qualcosa. Siamo usciti dunque in direzione di un negozio che avremmo trovato aperto fino a mezzanotte.
Odessa di notte non è un grande spettacolo. Avrei visto nei giorni seguenti che la vita notturna è da tutt'altra parte: in Riviera, ad Arkadia.
Il giorno seguente, domenica, ci siamo aggregati entrambi al giro organizzato dalla scuola, un tour per la città. In quell'occasione abbiamo incontrato gli altri studenti, e con loro siamo andati a pranzo in un bel posticino dall'aria bohemiénne, che mi ha ricordato molto Praga. Ho conosciuto in quell'occasione Frank, Sacha, Sergio, Adrien (e poi Anna la ragazza ucraina). Tutte persone interessanti, che studiavano il russo per qualche motivo non banale.
Il giorno dopo ho iniziato il corso di russo, e la sera ho aderito all'invito di Adrien che aveva organizzato una festa di benvenuto per i nuovi studenti. Nel piccolo locale in cui ci ha portati, l'Exit Bar, ho conosciuto tre ragazzi americani, navy seals in missione in Afghanistan che si trovavano a Odessa per una breve vacanza. Con loro abbiamo festeggiato il giorno dell'indipendenza americana. Succede proprio di tutto, da quelle parti.
Nella prima settimana non sono mai andato in spiaggia. Il tempo era brutto, sembrava proprio che il clima irlandese mi avesse seguito fin là.
Verso la fine della prima settimana è apparso il sole. Siamo andati all'Arkadia, abbiamo ballato e io ho scoperto il B52: una delle grandi conquiste dell'estate.
Sebbene la scorsa estate non abbia impiegato tanto tempo per farmi l'hit-parade personale delle chansons estive (indimenticabili: "Soul sister" dei Train, "A Silvio" di Andrea Vantini, la sigla de "Il dottor Slump e Arale", più qualcun'altra che ora mi sfugge) questa estate per me suona senza tormentoni.
Mi sono innamorato di alcune figure mitologiche, tali Donne, che forse non sono altro che l'ombra di proiezioni di un'immaginario arcaico e consunto, reso obsoleto dalle vacche artificiose della televisione.
Ho conosciuto Marina, l'ho vista nel bar Kompot dove serviva ai tavoli. Ci sentiamo ancora ma facciamo (anzi: faccio) una gran fatica a tenere i contatti. Lei parla solo russo, io mi arrangio, ma l'amore non può fondarsi sul Google Translator.
Visto che adesso sono le 00,03 mi verrebbe spontanea una riflessione, su Google Translator e l'amore, ma dopo l'ennesimo film pseudo-intellettualistico che NON mi sono fatto MA ho visto fare ad altri, ho deciso di ovviare.
L'estate a Odessa per me è associata ai pantaloni neri di pelle di Xenia, alle foto di Stefan in cucina quando meno se l'aspettava, ovviamente alle parole scandite lentamente dall'insegnante di russo a lezione (che si rivolse a me chiamandomi "maladoi cilavek", e da allora io sarei rimasto tale e quale, come in tutte le fiabe che hanno un inizio e uno svolgimento simile alla mia estate odessana), e poi ad altro. Altro... Ecco, sì, dimenticavo Tatjana, la sua dolcezza, il suo borsh. Poi i gatti di Odessa, tutti dal pelo lungo e dalle strane sfumature. Le strade dai marciapiedi disastrati, con buchi come crateri. Adrien che nella sua ultima serata all'Itaka club si fa quasi buttare fuori da uno della security perché "importuna" la ballerina.
Non ricordo poi che altro. Tutto è accaduto quasi in simultanea, così mi sembra da quanto è stato veloce.
Mi sono ritrovato un bel giorno all'aeroporto di London Gatwick, il 19 luglio, e mi sono accorto che tutto era finito...
Avevo quattro ore davanti a me, prima che partisse il mio volo per Dublino, il terzo e ultimo della giornata che mi avrebbe ricondotto a casa, dove il lavoro mi avrebbe riassorbito.
Questa la racconto, perché tutto sommato ci sta bene nell'insieme.
Avevo con me il netbook Samsung, e nella notte avevo tenuto la batteria in carica. Avevo pensato di trascorrere le cinque ore d'attesa in aeroporto guardandomi qualcuno dei film che da tempo stazionavano sul desktop. Avendo poca scelta, perché i più li avevo già visti, ho iniziato a vedere "Non aprite quella porta 3". Penso che qualcuno dei passanti, nella miriade di viaggiatori che passavano intorno alla panchina metallica su cui io bivaccavo, abbia notato la mia faccia terrorizzata davanti al piccolo schermo. (In realtà c'è poco da terrorizzarsi: solo un paio di scene, che sono comunque lontane per impatto visivo dal capolavoro del film originale). Il film non meriterebbe alcuna menzione: fa piuttosto schifo, diciamoci la verità. C'è Viggo Mortensen nella parte di Tex, che è il personaggio meno credibile e peggio caratterizzato della famiglia di cannibali segaioli. Nel complesso la sceneggiatura è lacunosa, le battute sono banali e si vede che volevano risparmiare d'inchiostro. Mi azzardo a dire che il film faccia ca---e. Sento però di dovermi trattenere dall'esprimere un giudizio definitivo e tanto pesante. Il perché sta tutto nel film che ho visto dopo questo film. Siccome mancavano ancora 2 ore alla partenza del mio volo, infatti, mi sono risolto a guardare un altro film che avevo lì a portata di mano. Ho guardato così Giallo, l'ultima opera di Dario Argento, genio del trash pauroso made in italy. Al termine del film resta l'interrogativo: quanto è stato pagato Adrien Brody per convincerlo a rovinarsi la carriera con un film tanto cesso? Nel mondo accadono cose perverse, il mondo dell'arte sta ben attento a non lasciarsi scappare nulla.
La Ryan Air mi ha infine riportato a Dublino. Per arrivare a casa c'era da affrontare prima un lungo viaggio in autobus, ma la sorte ha voluto che la compagnia mi avesse dato il mercoledì come giorno libero, da recuperare poi il sabato. Ho contravvenuto dunque all'imperativo biblico degli ebrei, accettando di lavorare il sabato, ma in fondo a me interessa il giusto perché, dettaglio che forse è troppo verboso aggiungere, e che a quest'ora potrei omettere per andare a dormire, ebreo io non sono. Sicché ho passato il mercoledì a Dublino.
La saudade del Mar Nero mi ha colpito, ho sofferto molto questo ritorno.
Bisogna però chiudere col passato, facendo tesoro di tutto quel popò di incontri straordinari che ho fatto... Questa è una ricchezza che si conserva nel tempo, che grazie a Facebook e ai social networks si protrarrà nell'arco della mia, della nostra vita, secondo quel che gli imprevisti ci porteranno a vivere.
Mi accorgo di essere particolarmente prolisso, e sono le 00,44.
Insomma, per dire le ultime parole: una pagine si chiude, ma forse (anzi: sicuramente) in un qualunque momento si può riaprire, come tutti i bei libri che si possono leggere da più prospettive.
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domenica 7 agosto 2011
lunedì 14 marzo 2011
Dopo Connemara, arriva il momento della verità.
Ci siamo. Siamo tornati a casa sani e salvi, dopo un itinerario ricco di imprevisti per la terra di Connemara (Irlanda). Vogliamo svuotarci le tasche della saggezza acquisita nel corso di questo tragitto, ma non solo. Condensiamo in un solo post le riflessioni filosofiche che dalle vette di monti desolati abbiamo prodotto.
Iniziamo con le news dell'ultima ora, che ci sono gentilmente offerte da Yahoo (che noi pagheremmo volentieri perché non ce le dasse, quando apriamo la posta elettronica). Negli ultimi giorni è apparsa la grande notizia: la rivista Forbes ha stabilito che la donna più sexy del mondo è Kim Kardashian (alla quale è pure dedicata la copertina della rivista).
Ma chi è costei? Abbiamo cercato di documentarci, giusto per non sentirci troppo esclusi dal mondo, dalla vita culturale e globale che freme all'alba del terzo millennio.
La signorina Kardashian si è guadagnata la gloria e il successo essenzialmente per due motivi: uno, perché è amica di tale Paris Hilton (grande protagonista della cultura d'oggi), e due, perché ha girato un film amatoriale porno col suo boyfriend. Dal film si capisce che la ragazza è brava a fare pompini, e perciò questo può ben giustificare il successo e il riconoscimento di Forbes, nonché renderla un modello per le teenagers di tutto il mondo che si interessano delle nuove icone fashion e dei mezzi innovativi di espressione della personalità.
Andiamo un attimo avanti, e scopriamo che Martina Colombari (altra cosiddetta VIP) ha pubblicato la propria autobiografia, intitolata "La vita è una". Ovviamente non leggeremo quest'ingegnosa opera, ma le interviste rilasciate dall'autrice sembrano abbastanza utili per introdurne il contenuto. L'autrice vi avrebbe qui raccontato il proprio tradimento nei confronti del marito, nell'arco del matrimonio che ancora fila a vele spiegate. Ovviamente l'indiscrezione è la molla dell'interesse, e perciò le interviste non sarebbero state interessanti senza qualcosa da raccontare. La rinnovata popolarità della neo-autrice, caduta nel dimenticatoio per quel ciclo di continuo rinnovamento dello show business (perché a quarant'anni il ruolo della velina risulta poco appropriato), giustifica la temeraria confessione. Questa, del resto, non sottoporrà la protagonista a nessuna gogna mediatica: col voler espungere il moralismo, da un po' si è espunta pure la morale. Fondamentali le parole dell'autrice in un'intervista: "Sono riuscita finalmente a mettermi a nudo. Un modo migliore per esprimersi, rispetto magari ad un calendario".
Passiamo ora all'ultimo episodio, che sigilla la visione dell'insieme come ultimo capitolo di una trilogia, e risulta complementare al precedente (così come il secondo sviluppa il primo). Protagonista è tale Renzo Bossi, che è riuscito a farsi segare per due volte di fila all'esame di maturità e perciò è stato premiato con un posto da consigliere comunale (e qualcos'altro che ora mi sfugge), giusto da mettersi in tasca ottomila o diecimila euro al mese. In un intervista il Trota disse: "Nella vita bisogna provare tutto. Tranne che le droghe e i culattoni". Soffermiamoci sulla prima frase. C'è da chiedersi: perché non prova allora ad andare a lavorare?
La conclusione del discorso sta nella mail che ho ricevuto questa mattina, che mi permette di cucire insieme questi momenti della vita culturale post-moderna. Sono iscritto a diverse mailing list, e perciò mi arrivano tante sorprese. Ora l'Editore Lineadaria di Biella mi informa della pubblicazione di un suo libro: La costituzione italiana spiegata ai bambini. Orrore! Perchè vogliono spiegarla ai bambini, la costituzione che ci ritroviamo, visto che neppure gli adulti la comprendono?
La costituzione italiana è del tutto incomprensibile. Inizia dicendo che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro. Quale lavoro? Quello che offrono l'Adecco o Manpower per un contratto di tre o quattro mesi? O quello di questa gente qui, che offende il buon gusto di ogni persona sensibile soltanto cercando di esprimersi ("in un libro, rispetto magari ad un calendario").
Se spieghiamo la costituzione ai bambini, presto o tardi loro capiranno che siamo dei cretini. Perché sono recettivi, e capiscono che la realtà delle parole è un'altra cosa rispetto a quella dei fatti. Si apre la via del grande oscurantismo laico.
Meglio raccontare le favole, ai bambini, nella speranza che dal mondo apprendano poco.
marzio19@yahoo.it
Iniziamo con le news dell'ultima ora, che ci sono gentilmente offerte da Yahoo (che noi pagheremmo volentieri perché non ce le dasse, quando apriamo la posta elettronica). Negli ultimi giorni è apparsa la grande notizia: la rivista Forbes ha stabilito che la donna più sexy del mondo è Kim Kardashian (alla quale è pure dedicata la copertina della rivista).
Ma chi è costei? Abbiamo cercato di documentarci, giusto per non sentirci troppo esclusi dal mondo, dalla vita culturale e globale che freme all'alba del terzo millennio.
La signorina Kardashian si è guadagnata la gloria e il successo essenzialmente per due motivi: uno, perché è amica di tale Paris Hilton (grande protagonista della cultura d'oggi), e due, perché ha girato un film amatoriale porno col suo boyfriend. Dal film si capisce che la ragazza è brava a fare pompini, e perciò questo può ben giustificare il successo e il riconoscimento di Forbes, nonché renderla un modello per le teenagers di tutto il mondo che si interessano delle nuove icone fashion e dei mezzi innovativi di espressione della personalità.
Andiamo un attimo avanti, e scopriamo che Martina Colombari (altra cosiddetta VIP) ha pubblicato la propria autobiografia, intitolata "La vita è una". Ovviamente non leggeremo quest'ingegnosa opera, ma le interviste rilasciate dall'autrice sembrano abbastanza utili per introdurne il contenuto. L'autrice vi avrebbe qui raccontato il proprio tradimento nei confronti del marito, nell'arco del matrimonio che ancora fila a vele spiegate. Ovviamente l'indiscrezione è la molla dell'interesse, e perciò le interviste non sarebbero state interessanti senza qualcosa da raccontare. La rinnovata popolarità della neo-autrice, caduta nel dimenticatoio per quel ciclo di continuo rinnovamento dello show business (perché a quarant'anni il ruolo della velina risulta poco appropriato), giustifica la temeraria confessione. Questa, del resto, non sottoporrà la protagonista a nessuna gogna mediatica: col voler espungere il moralismo, da un po' si è espunta pure la morale. Fondamentali le parole dell'autrice in un'intervista: "Sono riuscita finalmente a mettermi a nudo. Un modo migliore per esprimersi, rispetto magari ad un calendario".
Passiamo ora all'ultimo episodio, che sigilla la visione dell'insieme come ultimo capitolo di una trilogia, e risulta complementare al precedente (così come il secondo sviluppa il primo). Protagonista è tale Renzo Bossi, che è riuscito a farsi segare per due volte di fila all'esame di maturità e perciò è stato premiato con un posto da consigliere comunale (e qualcos'altro che ora mi sfugge), giusto da mettersi in tasca ottomila o diecimila euro al mese. In un intervista il Trota disse: "Nella vita bisogna provare tutto. Tranne che le droghe e i culattoni". Soffermiamoci sulla prima frase. C'è da chiedersi: perché non prova allora ad andare a lavorare?
La conclusione del discorso sta nella mail che ho ricevuto questa mattina, che mi permette di cucire insieme questi momenti della vita culturale post-moderna. Sono iscritto a diverse mailing list, e perciò mi arrivano tante sorprese. Ora l'Editore Lineadaria di Biella mi informa della pubblicazione di un suo libro: La costituzione italiana spiegata ai bambini. Orrore! Perchè vogliono spiegarla ai bambini, la costituzione che ci ritroviamo, visto che neppure gli adulti la comprendono?
La costituzione italiana è del tutto incomprensibile. Inizia dicendo che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro. Quale lavoro? Quello che offrono l'Adecco o Manpower per un contratto di tre o quattro mesi? O quello di questa gente qui, che offende il buon gusto di ogni persona sensibile soltanto cercando di esprimersi ("in un libro, rispetto magari ad un calendario").
Se spieghiamo la costituzione ai bambini, presto o tardi loro capiranno che siamo dei cretini. Perché sono recettivi, e capiscono che la realtà delle parole è un'altra cosa rispetto a quella dei fatti. Si apre la via del grande oscurantismo laico.
Meglio raccontare le favole, ai bambini, nella speranza che dal mondo apprendano poco.
marzio19@yahoo.it
giovedì 24 febbraio 2011
Sono entrato nell'età della ragione
Dopo un lungo periodo di assenza sono tornare a vergare le pagine del blog. E' passato del tempo, l'ultima volta che l'ho aggiornato è stato quando mi sono chiuso per sbaglio fuori di casa. Nel frattempo sono trascorsi due mesi, durante il quale si è celebrato il mio compleanno, insomma il raggiungimento di quella che alcuni ancora si ostinano a chiamare "l'età della ragione".
Non è però di questo che vorrei a parlare. (Anzi, a dire il vero, non so bene di cosa vorrei parlare. Mi sono svegliato un'ora fa, dopo un recupero di sonno arretrato, e mi sento in vena di comunicare con il mondo). La linea del blog mi impone una coerenza di forma, oltre che di sostanza, dunque applicherò su di me un'auto-censura ed eviterò frasi lunghe, non connesse fra sé, periodi ipotetici che durano più di venti parole e quello che certuni mi rimproverano come errore, ma che in verità è il mio punto di forza, ossia l'ignoranza dell'anacoluto storico.
La primavera è arrivata, e io sono in attesa di sapere se avrò tre settimane per andare a luglio sul Mar Nero. Le preoccupazioni del futuro continuano a perturbare il presente, e io risolvo il problema come posso, soprattutto mangiandomi le unghie.
Il lavoro aumenta, il tempo diminuisce, in certe occasioni sento di perdere il contatto con la mia vita.
Mi ero invaghito di una ragazza sul luogo di lavoro, alla quale ho regalato dei pensierini affettuosi in tutti i momenti che agevolavano l'espressione di sentimenti disinteressati. Sono arrivato al punto di fare qualcosa che non avrei mai pensato di fare, qualcosa che per me è inconcepibile: pur di vederla fuori dall'ambaradan, le ho detto che l'avrei accompagnata al concerto di Usher a Dublin. (Trattasi di un rapparo americano bracalone con le mutande in fuori). Chi l'avrebbe mai detto che nell'età della ragione avrei potuto compiere un passo del genere? Quale sinistra follia può muovermi a far tanto, in nome di un atavico impeto passionale? E' forse la prova che la ragione è l'etichetta d'uso per giustificare le fortuite corrispondenze tra un mezzo e un fine da raggiungere?
Il tema del blog, e cioé l'estetica fenomenologica delle cose belle, è pertinente all'argomento, ma qui occorre espandere il campo d'azione all'epistemologia dell'amore, all'ermeneutica del tempo e del destino, alla teoria strutturalista del weekend.
In ogni caso... non compirò quel gesto difficile e poco conforme al mio normale gusto estetico. Non andrò con lei a vedere il rapper a Dublino. Dopo aver informato con bugiardo entusiasmo la fanciulla della mia intenzione di accompagnarla, lei mi ha infatti detto: "It's up to you. I go with my boyfriend".
Ah, che doccia gelata!
Sono costretto a rivedere tutta la mia vita. Vorrei citare qui Ortega y Gasset, ma forse sarebbe fuori luogo.
Per fortuna il lavoro mi consola. I clienti chiamano e mi chiedono di resettare le password, e questo un pochino mi distrae dalle delusioni del presente. Mi restano ancora quattro mesi prima del Mar Nero.
Il presente è ancora l'attesa di qualcosa d'irrealizzato.
marzio19@yahoo.it
Non è però di questo che vorrei a parlare. (Anzi, a dire il vero, non so bene di cosa vorrei parlare. Mi sono svegliato un'ora fa, dopo un recupero di sonno arretrato, e mi sento in vena di comunicare con il mondo). La linea del blog mi impone una coerenza di forma, oltre che di sostanza, dunque applicherò su di me un'auto-censura ed eviterò frasi lunghe, non connesse fra sé, periodi ipotetici che durano più di venti parole e quello che certuni mi rimproverano come errore, ma che in verità è il mio punto di forza, ossia l'ignoranza dell'anacoluto storico.
La primavera è arrivata, e io sono in attesa di sapere se avrò tre settimane per andare a luglio sul Mar Nero. Le preoccupazioni del futuro continuano a perturbare il presente, e io risolvo il problema come posso, soprattutto mangiandomi le unghie.
Il lavoro aumenta, il tempo diminuisce, in certe occasioni sento di perdere il contatto con la mia vita.
Mi ero invaghito di una ragazza sul luogo di lavoro, alla quale ho regalato dei pensierini affettuosi in tutti i momenti che agevolavano l'espressione di sentimenti disinteressati. Sono arrivato al punto di fare qualcosa che non avrei mai pensato di fare, qualcosa che per me è inconcepibile: pur di vederla fuori dall'ambaradan, le ho detto che l'avrei accompagnata al concerto di Usher a Dublin. (Trattasi di un rapparo americano bracalone con le mutande in fuori). Chi l'avrebbe mai detto che nell'età della ragione avrei potuto compiere un passo del genere? Quale sinistra follia può muovermi a far tanto, in nome di un atavico impeto passionale? E' forse la prova che la ragione è l'etichetta d'uso per giustificare le fortuite corrispondenze tra un mezzo e un fine da raggiungere?
Il tema del blog, e cioé l'estetica fenomenologica delle cose belle, è pertinente all'argomento, ma qui occorre espandere il campo d'azione all'epistemologia dell'amore, all'ermeneutica del tempo e del destino, alla teoria strutturalista del weekend.
In ogni caso... non compirò quel gesto difficile e poco conforme al mio normale gusto estetico. Non andrò con lei a vedere il rapper a Dublino. Dopo aver informato con bugiardo entusiasmo la fanciulla della mia intenzione di accompagnarla, lei mi ha infatti detto: "It's up to you. I go with my boyfriend".
Ah, che doccia gelata!
Sono costretto a rivedere tutta la mia vita. Vorrei citare qui Ortega y Gasset, ma forse sarebbe fuori luogo.
Per fortuna il lavoro mi consola. I clienti chiamano e mi chiedono di resettare le password, e questo un pochino mi distrae dalle delusioni del presente. Mi restano ancora quattro mesi prima del Mar Nero.
Il presente è ancora l'attesa di qualcosa d'irrealizzato.
marzio19@yahoo.it
giovedì 9 dicembre 2010
Le passioni degli azionisti
Ci sono momenti in cui vorrei fermarmi a pensare, magari sedermi su un morbido sofa', con la consapevolezza che faccio davvero quel che devo fare... Poi pero' mi alzo, perche' mi viene in mente che devo fare qualcos'altro, e poi altro ancora, e tutto questo e' un giro ininterrotto di movimenti che in realta' potrei evitare. Scrivere un post del genere non mi aiutera' probabilmente a dare una svolta radicale alla giornata... Si puo' vivere senza sapere cosa si fa, e soprattutto senza sapere cos'e' che potremmo fare di meglio? Non ci credo che si puo' sempre migliorare. Vale comunque la pena di fare un tentativo, che ci indichera' una meta da raggiungere.
(Ecco, fra l'altro e' intervenuto ora un affaticamento al mio polso destro, il che rende pure piu' lento lo scrivere...).
Mi trovo alla biblioteca di Shannon, che sta giusto davanti a casa mia. Davanti casa, abbiamo un grande prato bianco di gelo, che guardandolo da vicino permette di ammirare le sottili forme ghiacchiate dei fili d'erba, e pure alcune ragnatele rese plastiche dal clima. Niente pioppi, faggi, salici e giaggiuoli.
La mia giornata vera e propria inizia alle 13, visto che oggi lavoro col turno pomeridiano. Arriveranno finalmente le chiamate dai clienti azionisti della banca, che vorranno resettare la password e magari pretenderanno informazioni dettagliate e puntuali sul nuovo piano di investimento azionistico varato dalla loro azienda. I telefoni suoneranno, e tutti vorranno avere informazioni sulle loro azioni. L'azione (share), ho imparato, e' una parte del capitale di un'azienda. Ogni azione produce un dividendo, nel caso in cui l'azienda ottenga dei profitti alla fine dell'anno. Questi profitti vengono ripartiti tra gli azionisti, in maniera proporzionale alle azioni possedute da ciascun azionisti.
Queste sono le azioni del mercato, ma vi sono pure altre azioni, che il mio lavoro non considera e pure deve ignorare (per quella logica rigorosa e non del tutto univoca che il lavoro piu' moderno ha forgiato). Queste a cui alludo sono le azioni che si compiono nella vita naturale e irriflessa, ossia le scelte che facciamo ogni giorno, in cui ci rapportiamo a chi ci e' vicino e condivide la propria vita con noi. Queste azioni spesso non producono dividendi. Anzi, agendo in quelle occasioni, compiendo tali azioni nella vita privata e pubblica siamo del tutto all'oscuro di cosa siano i dividenti. Non amiamo le persone, non cambiamo canale davanti alla televisione, non ci dedichiamo alla descrizione del paesaggio pensando ai dividendi. Eppure, anche quelle azioni li' producono qualcosa.
E quanto una nostra azione produce non si ripartisce in maniera rigorosa, secondo appunto il criterio di distribuzione bancaria. Si ripartisce secondo altre logiche, che son dettate unicamente dalla predisposizione di ogni participante. Non c'e' proporzione, perche' il valore non e' misurato secondo una logica; il valore e' intuitivo, e percio' non e' discorsivo (e dunque e' illogico, giacche' logica deriva da logos).
Dovrei fermarmi qui per un'ora, ma l'orologio mi obbliga a far le cose di corsa. Riprendero' magari questo tema in un altro post.
Ora devo tornare a casa, devo radermi e partire. Mi attende una nuova avventura, in cui il mio destino si incrociera' con quello dei clienti azionisti.
(Ecco, fra l'altro e' intervenuto ora un affaticamento al mio polso destro, il che rende pure piu' lento lo scrivere...).
Mi trovo alla biblioteca di Shannon, che sta giusto davanti a casa mia. Davanti casa, abbiamo un grande prato bianco di gelo, che guardandolo da vicino permette di ammirare le sottili forme ghiacchiate dei fili d'erba, e pure alcune ragnatele rese plastiche dal clima. Niente pioppi, faggi, salici e giaggiuoli.
La mia giornata vera e propria inizia alle 13, visto che oggi lavoro col turno pomeridiano. Arriveranno finalmente le chiamate dai clienti azionisti della banca, che vorranno resettare la password e magari pretenderanno informazioni dettagliate e puntuali sul nuovo piano di investimento azionistico varato dalla loro azienda. I telefoni suoneranno, e tutti vorranno avere informazioni sulle loro azioni. L'azione (share), ho imparato, e' una parte del capitale di un'azienda. Ogni azione produce un dividendo, nel caso in cui l'azienda ottenga dei profitti alla fine dell'anno. Questi profitti vengono ripartiti tra gli azionisti, in maniera proporzionale alle azioni possedute da ciascun azionisti.
Queste sono le azioni del mercato, ma vi sono pure altre azioni, che il mio lavoro non considera e pure deve ignorare (per quella logica rigorosa e non del tutto univoca che il lavoro piu' moderno ha forgiato). Queste a cui alludo sono le azioni che si compiono nella vita naturale e irriflessa, ossia le scelte che facciamo ogni giorno, in cui ci rapportiamo a chi ci e' vicino e condivide la propria vita con noi. Queste azioni spesso non producono dividendi. Anzi, agendo in quelle occasioni, compiendo tali azioni nella vita privata e pubblica siamo del tutto all'oscuro di cosa siano i dividenti. Non amiamo le persone, non cambiamo canale davanti alla televisione, non ci dedichiamo alla descrizione del paesaggio pensando ai dividendi. Eppure, anche quelle azioni li' producono qualcosa.
E quanto una nostra azione produce non si ripartisce in maniera rigorosa, secondo appunto il criterio di distribuzione bancaria. Si ripartisce secondo altre logiche, che son dettate unicamente dalla predisposizione di ogni participante. Non c'e' proporzione, perche' il valore non e' misurato secondo una logica; il valore e' intuitivo, e percio' non e' discorsivo (e dunque e' illogico, giacche' logica deriva da logos).
Dovrei fermarmi qui per un'ora, ma l'orologio mi obbliga a far le cose di corsa. Riprendero' magari questo tema in un altro post.
Ora devo tornare a casa, devo radermi e partire. Mi attende una nuova avventura, in cui il mio destino si incrociera' con quello dei clienti azionisti.
martedì 16 novembre 2010
Una notte fredda e tempestosa a Shannon
Mi trovo adesso in Irlanda, per l'esattezza geografica mi trovo in un McDonald, in un posto che nella lingua indigena si direbbe in the middle of nowhere.
Una proposta di lavoro mi ha portato ancora una volta lontano. Cosi', sui due piedi, sono stato chiamato a prendere una decisione coraggiosa. L'incertezza dell'avvenire mi ha spinto ad accettare l'ignoto.
Non avrebbe avuto senso domandarsi se ho fatto bene o male ad accettare, nel caso che tutto fosse rimasto com'era fino a una decina di giorni fa. Ma invece il senso la domanda ce l'ha, perchè decidendo di accettare e trasbordarmi fin qui ho consapevolmente posto la parola Fine su un'avventura umana ed esistenziale che forse avrebbe tessuto la mia vita con una fibra piu' forte, piu' consistente perchè fatta di un significato.
Non mi piace raccontare i fatti miei e in pubblico, e percio' restero' nel vago in proposito. Non diro' quale sia la passione che ho sacrificato. E neppure diro' di quel sentimento avvilente che ora mi assale, mentre dalla finestrona con la M del Mac vedo la tormenta che funesta il luogo in the middle of nowhere.
Vorrei parlare delle cose belle, che scopro ogni tanto quando guardo fuori e scopro un mondo di incanto e meraviglie. Adesso devo fare i conti con le necessita' - e soprattutto con la solitudine che queste necessita' comportano.
Volevo pubblicare un post relativo a un articolo di Alberoni pubblicato una settimana fa sul Corriere della Sera (che certamente ha a che vedere, seppure in maniera indiretta, con lo spleen del mio viaggio) ma l'imprevisto della partenza mi ha dirottato verso altre riflessioni.
Tutto trovera' la giusta collocazione in the matter of a while.
(La tastiera irlandese non conosce le vocali accentate. Mi consento percio' di usare l'apostrofo per supplire alla loro assenza)
Una proposta di lavoro mi ha portato ancora una volta lontano. Cosi', sui due piedi, sono stato chiamato a prendere una decisione coraggiosa. L'incertezza dell'avvenire mi ha spinto ad accettare l'ignoto.
Non avrebbe avuto senso domandarsi se ho fatto bene o male ad accettare, nel caso che tutto fosse rimasto com'era fino a una decina di giorni fa. Ma invece il senso la domanda ce l'ha, perchè decidendo di accettare e trasbordarmi fin qui ho consapevolmente posto la parola Fine su un'avventura umana ed esistenziale che forse avrebbe tessuto la mia vita con una fibra piu' forte, piu' consistente perchè fatta di un significato.
Non mi piace raccontare i fatti miei e in pubblico, e percio' restero' nel vago in proposito. Non diro' quale sia la passione che ho sacrificato. E neppure diro' di quel sentimento avvilente che ora mi assale, mentre dalla finestrona con la M del Mac vedo la tormenta che funesta il luogo in the middle of nowhere.
Vorrei parlare delle cose belle, che scopro ogni tanto quando guardo fuori e scopro un mondo di incanto e meraviglie. Adesso devo fare i conti con le necessita' - e soprattutto con la solitudine che queste necessita' comportano.
Volevo pubblicare un post relativo a un articolo di Alberoni pubblicato una settimana fa sul Corriere della Sera (che certamente ha a che vedere, seppure in maniera indiretta, con lo spleen del mio viaggio) ma l'imprevisto della partenza mi ha dirottato verso altre riflessioni.
Tutto trovera' la giusta collocazione in the matter of a while.
(La tastiera irlandese non conosce le vocali accentate. Mi consento percio' di usare l'apostrofo per supplire alla loro assenza)
venerdì 5 novembre 2010
Le coordinate dei tempi
Dopo giorni noiosi, senza slanci emotivi o interesse per gli affari del mondo, ho deciso di accettare l'invito dei compagni di ostello. Dopotutto - mi son detto - i giorni sono contati e manca poco al momento del ritorno. Cosi' ieri sera abbiamo fermato un taxi "non ufficiale", una receptionist ha detto all'autista di portarci al Faq Caffe', e ci siamo avviati in due macchine diverse. Eravamo di tante parti del mondo. E' finita che ci siamo persi, e al Faq siamo sbarcati dopo un bel giro a pera. Poco piu' tardi abbiamo ripreso un taxi non ufficiale e siamo giunti al Propaganda. C'era gente di tanti tipi, ma soprattutto ragazzi sui vent'anni. Mi sono intenerito a vedere le ragazze russe basse e un po' rotonde, che mi hanno inevitabilmente ricordato le matrioske. Uno spagnolo dell'ostello, che era venuto con me, ha pure sfilato gli occhiali da vista ad una piccola matrioska; io ho assistito alla scena da lontano, e non ho capito molto sulle implicazioni di questo gesto. In seguito, avendo parlato con Jorge al ritorno, lui mi ha rivelato di averlo fatto per scoprire se magari quella fosse stata carina senza occhiali.
Non intendo soffermarmi tuttavia su tutti i particolari della serata. (Certo, bisognerebbe dire qualcosa sulla toilette degli uomini, in cui i vespasiani erano praticamente attaccati al lavandino, che incorniciavano in modo quasi simpatico).
Non voglio soffermarmi neppure sullo stato d'animo grigio e apatico che la citta' mi ha infuso. Neppure sui trips mentali che la disoccupazione mi infligge a ogni passo. Se sapessi un po' il tedesco, magari mi soffermerei su quel libro che un crucco ha scritto sul Piccolo Principe e Nietzsche (libro che ho trovato qui in ostello, e che il solo sfogliare disinteressato mi ha fatto intuire l'essenza di cui tratta).
Vorrei soffermarmi sui nomi della letteratura che si fa mercato. Di questi non ce n'e' uno che mi appassioni. Ho provato a leggere qualcosa di Fabio Volo, Coelho, Baricco, una volta persino Moccia mentre ero in fila al supermercato e l'ultimo best-seller era li', sulla mensola delle mentine e dei Ferrero Rocher. Appartengono tutti alla stessa categoria, ed e' il riferimento a un comune contesto zeppo di superficialita' mascherata, che e' quello che rende tutto comprensibile. Un autore fuori dal contesto morirebbe di fame. C'e' una specie di sociologo, che vedevo ospite al Maurizio Costanzo Show, che dice soltanto cazzate e i suoi libri editi da Mondadori occupano posizioni in vista in ogni libreria. Non ci si puo' stupire di nulla, visti gli assi cartesiani che si son tracciati per dare collocazione ai risultati dell'intelligenza. Quale intelligenza? Ancora una volta, si tratta dell'intelligenza contabilizzata dal mercato.
Perche' pensare a cio', durante la settimana moscovita in cui (tra l'altro) si e' celebrata la conquista del potere, tanti anni fa, ad opera dei rivoluzionari bolscevichi? Anche questa e' un'associazione di idee avulsa da una logica imposta.
Anche qua la miseria dell'Occidente e' arrivata, coi reality shows e le grandi insegne pubblicitarie di Pepsi o McDonald. Il mondo e' bello perche' e' bello, mi sono accorto, e non perche' e' vario. Anzi, forse vario oggigiorno non lo e' poi tanto... Al Propaganda eravamo un italiano, uno spagnolo, un indonesiano, un egiziano, due olandesi e tre tedeschi, e abbiamo scoperto che parlavamo delle stesse cose. Qualcuno non puo' vivere senza la connessione wi-fi. Quasi tutti siamo su Facebook.
Il nostro futuro e' dove noi vogliamo costruirlo.
Se Dio non esiste, questo e' il piu' piatto dei mondi possibili.
Tornando a casa ho attraversato la piazza rossa, e ho compreso che si chiama cosi' non per via del colore dei comunisti, ma semplicemente perche' e' rossa. Siamo sempre portati a pensare a un significato di eccesso, qualcosa che da' il senso alle parole semplici. Perche' le cose non sono semplici di per se', ma lo sono se noi le consideriamo semplici. (Come appunto avevo detto in altro luogo delle cose complicate, che appunto sono complicate perche' siamo noi a complicarle).
Forse non e' il caso di proseguire su questa linea di ragionamento, tuttavia. Si finisce per incorrere in paradossi, o peggio, in un solipsismo assoluto che puo' vestire i panni di qualunque nichilismo.
Percio' guardiamo avanti, promettendo che presto riprenderemo a occuparci qui della sola fenomenologia delle cose belle. (Essendo questo l'argomento che ci ha mosso tempo fa alla creazione del blog).
Dal momento che la tastiera russa non conosce l'esistenza delle vocali accentate, mi sono dovuto arrangiare un po' cosi'.
Non intendo soffermarmi tuttavia su tutti i particolari della serata. (Certo, bisognerebbe dire qualcosa sulla toilette degli uomini, in cui i vespasiani erano praticamente attaccati al lavandino, che incorniciavano in modo quasi simpatico).
Non voglio soffermarmi neppure sullo stato d'animo grigio e apatico che la citta' mi ha infuso. Neppure sui trips mentali che la disoccupazione mi infligge a ogni passo. Se sapessi un po' il tedesco, magari mi soffermerei su quel libro che un crucco ha scritto sul Piccolo Principe e Nietzsche (libro che ho trovato qui in ostello, e che il solo sfogliare disinteressato mi ha fatto intuire l'essenza di cui tratta).
Vorrei soffermarmi sui nomi della letteratura che si fa mercato. Di questi non ce n'e' uno che mi appassioni. Ho provato a leggere qualcosa di Fabio Volo, Coelho, Baricco, una volta persino Moccia mentre ero in fila al supermercato e l'ultimo best-seller era li', sulla mensola delle mentine e dei Ferrero Rocher. Appartengono tutti alla stessa categoria, ed e' il riferimento a un comune contesto zeppo di superficialita' mascherata, che e' quello che rende tutto comprensibile. Un autore fuori dal contesto morirebbe di fame. C'e' una specie di sociologo, che vedevo ospite al Maurizio Costanzo Show, che dice soltanto cazzate e i suoi libri editi da Mondadori occupano posizioni in vista in ogni libreria. Non ci si puo' stupire di nulla, visti gli assi cartesiani che si son tracciati per dare collocazione ai risultati dell'intelligenza. Quale intelligenza? Ancora una volta, si tratta dell'intelligenza contabilizzata dal mercato.
Perche' pensare a cio', durante la settimana moscovita in cui (tra l'altro) si e' celebrata la conquista del potere, tanti anni fa, ad opera dei rivoluzionari bolscevichi? Anche questa e' un'associazione di idee avulsa da una logica imposta.
Anche qua la miseria dell'Occidente e' arrivata, coi reality shows e le grandi insegne pubblicitarie di Pepsi o McDonald. Il mondo e' bello perche' e' bello, mi sono accorto, e non perche' e' vario. Anzi, forse vario oggigiorno non lo e' poi tanto... Al Propaganda eravamo un italiano, uno spagnolo, un indonesiano, un egiziano, due olandesi e tre tedeschi, e abbiamo scoperto che parlavamo delle stesse cose. Qualcuno non puo' vivere senza la connessione wi-fi. Quasi tutti siamo su Facebook.
Il nostro futuro e' dove noi vogliamo costruirlo.
Se Dio non esiste, questo e' il piu' piatto dei mondi possibili.
Tornando a casa ho attraversato la piazza rossa, e ho compreso che si chiama cosi' non per via del colore dei comunisti, ma semplicemente perche' e' rossa. Siamo sempre portati a pensare a un significato di eccesso, qualcosa che da' il senso alle parole semplici. Perche' le cose non sono semplici di per se', ma lo sono se noi le consideriamo semplici. (Come appunto avevo detto in altro luogo delle cose complicate, che appunto sono complicate perche' siamo noi a complicarle).
Forse non e' il caso di proseguire su questa linea di ragionamento, tuttavia. Si finisce per incorrere in paradossi, o peggio, in un solipsismo assoluto che puo' vestire i panni di qualunque nichilismo.
Percio' guardiamo avanti, promettendo che presto riprenderemo a occuparci qui della sola fenomenologia delle cose belle. (Essendo questo l'argomento che ci ha mosso tempo fa alla creazione del blog).
Dal momento che la tastiera russa non conosce l'esistenza delle vocali accentate, mi sono dovuto arrangiare un po' cosi'.
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martedì 2 novembre 2010
Dalla sopravvivenza alla vita molteplice. Una riflessione fenomenologica da MOCKBA.
Viviamo una doppia vita. Ce ne accorgiamo per caso, perche' non e' volontariamente che incorriamo nella negazione (cioe' la contraddizione) di se stessi.
Trovo giusto iniziare cosi', con una riflessione decisamente arbitraria il racconto dell'arrivo a Mosca.
L'alfabeto non aiuta affatto a comprendere questo popolo, che e' orientale piu' di quanto si pensi.
E come se non bastasse, al pomeriggio fa addirittura piu' freddo che al mattino.
Ho trascorso la giornata a fare foto all'architettura costruttivista, il fiore all'occhiello della capitale che volle innalzare la dittatura del proletariato. Tra palazzi grandi come villaggi non ho disdegnato di fotografare i piccioni che fanno compagnia a Dostojevski, le creature sub-umane a cui il museo di antropologia ha dedicato mezzibusti esposti sulle pareti esteriori, e pure gli omini che vendono le schedine del lotto nella Piazza Rossa.
All'ingresso del Cremlino sta una bella statua del maresciallo Zukhov, quello che ha condotto l'Armata Rossa a Berlino. Resti sparsi per la citta' ricordano la matrice ideologica del suo passato. Trovo esteticamente piacevoli i mosaici che decorano la stazione della metropolitana di Arbatskaya, dove si commemora l'inaugurazione di una gloriosa fabbrica dai protagonisti della rivoluzione.
Ma qui non posso dilungarmi sui particolari... ero partito con l'idea di scrivere un post su ben altro. Volevo parlare delle vite parallele che viviamo senza saperlo, ed ecco: si e' manifestato un fenomeno dissociativo, che mi porta a ragionare d'altro. Si potrebbe usare questo come esempio dell'incostanza, o meglio, della scarsa concentrazione come motivo scatenante della dissociazione degli io? Si cessa di essere se stessi, e si diventa altre persone (o meglio, si diventa altri perche' con altri ci immedesimiamo) soltanto perche' non siamo capaci di finire un discorso e piu' facile ci riesce cominciarne altri dieci (che molto probabilmente non saranno similmente conclusi, ma si ramificheranno in altri ragionamenti ancora) ?
Mi sento di rispondere in modo affermativo. Ma il motivo non puo' stare esclusivamente li'.
E' il rigore impostomi dalla scienza che mi obbliga a cercare un ulteriore approfondimento.
Siamo piu' persone dietro la stessa faccia e sotto la stessa pelle, ma e' troppo riduttivo sostenere che cio' dipenda solo dalla debolezza della volonta' che, intrinsecamente, rende costitutivamente pregnante gli argomenti morali che danno poi forma, vita e sostentamento al nostro modo di vedere il mondo, di vedere noi stessi nel mondo, dunque di vedere noi ("io") a confronto con gli altri in tutti i contesti della vita.
La fenomenologia degenera nella psichiatria, perche' la dimensione dell'io oscilla in maniera ambigua e spesso impercettibile sul confine della realta' e dell'irrealta'.
La pluralita' del vivere non e' compatibile con l'unicita' dell'io.
In futuro tornero' su questo argomento. Nel prossimo post, tuttavia, riprendero' il tema dell'ultimo post, in merito all'incontro con Ferraccio, che e' stato di grande aiuto per il superamento della condizione di "coscienza infelice" di fronte alla disoccupazione.
Tutti gli accenti sulle vocali, qui, purtroppo li ho messi cosi' perche' su questa tastiera russa le vocali accentate non ci sono.
Trovo giusto iniziare cosi', con una riflessione decisamente arbitraria il racconto dell'arrivo a Mosca.
L'alfabeto non aiuta affatto a comprendere questo popolo, che e' orientale piu' di quanto si pensi.
E come se non bastasse, al pomeriggio fa addirittura piu' freddo che al mattino.
Ho trascorso la giornata a fare foto all'architettura costruttivista, il fiore all'occhiello della capitale che volle innalzare la dittatura del proletariato. Tra palazzi grandi come villaggi non ho disdegnato di fotografare i piccioni che fanno compagnia a Dostojevski, le creature sub-umane a cui il museo di antropologia ha dedicato mezzibusti esposti sulle pareti esteriori, e pure gli omini che vendono le schedine del lotto nella Piazza Rossa.
All'ingresso del Cremlino sta una bella statua del maresciallo Zukhov, quello che ha condotto l'Armata Rossa a Berlino. Resti sparsi per la citta' ricordano la matrice ideologica del suo passato. Trovo esteticamente piacevoli i mosaici che decorano la stazione della metropolitana di Arbatskaya, dove si commemora l'inaugurazione di una gloriosa fabbrica dai protagonisti della rivoluzione.
Ma qui non posso dilungarmi sui particolari... ero partito con l'idea di scrivere un post su ben altro. Volevo parlare delle vite parallele che viviamo senza saperlo, ed ecco: si e' manifestato un fenomeno dissociativo, che mi porta a ragionare d'altro. Si potrebbe usare questo come esempio dell'incostanza, o meglio, della scarsa concentrazione come motivo scatenante della dissociazione degli io? Si cessa di essere se stessi, e si diventa altre persone (o meglio, si diventa altri perche' con altri ci immedesimiamo) soltanto perche' non siamo capaci di finire un discorso e piu' facile ci riesce cominciarne altri dieci (che molto probabilmente non saranno similmente conclusi, ma si ramificheranno in altri ragionamenti ancora) ?
Mi sento di rispondere in modo affermativo. Ma il motivo non puo' stare esclusivamente li'.
E' il rigore impostomi dalla scienza che mi obbliga a cercare un ulteriore approfondimento.
Siamo piu' persone dietro la stessa faccia e sotto la stessa pelle, ma e' troppo riduttivo sostenere che cio' dipenda solo dalla debolezza della volonta' che, intrinsecamente, rende costitutivamente pregnante gli argomenti morali che danno poi forma, vita e sostentamento al nostro modo di vedere il mondo, di vedere noi stessi nel mondo, dunque di vedere noi ("io") a confronto con gli altri in tutti i contesti della vita.
La fenomenologia degenera nella psichiatria, perche' la dimensione dell'io oscilla in maniera ambigua e spesso impercettibile sul confine della realta' e dell'irrealta'.
La pluralita' del vivere non e' compatibile con l'unicita' dell'io.
In futuro tornero' su questo argomento. Nel prossimo post, tuttavia, riprendero' il tema dell'ultimo post, in merito all'incontro con Ferraccio, che e' stato di grande aiuto per il superamento della condizione di "coscienza infelice" di fronte alla disoccupazione.
Tutti gli accenti sulle vocali, qui, purtroppo li ho messi cosi' perche' su questa tastiera russa le vocali accentate non ci sono.
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mercoledì 27 ottobre 2010
Rivolgimento d'attenzione su me stesso, quando l'umore cambia (in seguito alla costatazione che senza una raccomandazione non si va da nessuna parte).
Nell'ultimo post ho tematizzato un pensiero correlato al mio prossimo, breve, viaggio a Mosca.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.
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marzio valdambrini
mercoledì 20 ottobre 2010
Il Cremlino è là che mi aspetta
Mi trovo adesso nella vasta e lussuosa hall di un resort turistico, piuttosto vicino a casa mia. Ho scoperto che posso connettermi a internet da qua, risparmiando dunque la benzina per arrivare a Pisa o a Livorno. Davanti a me ho ore spensierate per mettervi al corrente di quel che l'autunno porta nei luoghi di mare; metafore d'incertezza, dubbi pleonastici sul domani che convalida lo ieri, freddate dovute a un abbigliamento esistenziale inadeguato, e poi cozze senza perla, livree d'argento, parole sconclusionate, discorsi ovvi.
Sto parlando in chat con Fernanda, che è stata a Mosca poco tempo fa. Mi suggerisce alcune destinazioni che dovrei includere nel mio vagare. Ma il tempo è poco: solo una settimana mi tratterrò in quella terra fredda che vanta una tradizione tanto lontana dal nostro Occidente. Intanto, il freddo è arrivato fin qui.
Mi viene da pensare che forse lo stesso freddo che sento in questa hall, vicino casa e vicino alla spiaggia tirrenica, sia una presentificazione (termine di cui i fenomenologi tedeschi hanno abusato, usandolo nella loro lingua fin troppo tecnicistica) del freddo russo, in cui presto verrò a trovarmi.
Vi è certamente una spiegazione scientifica, che i potenti strumenti modernissimi di rilevazione meteorologica possono fornire... Ma noi, che siamo eredi di una tradizione stilnovista, eredi di Dante e di Boccaccio, del Petrarca e dell'Ariosto, di una tradizione insomma che non ha nulla a che spartire col razionalismo europeo e con le sue escrescenze giacobine che nulla hanno dimostrato se non le inevitabili derivazioni violentemente irrazionali del culto della ragione, ecco, noi dobbiamo rifiutare tale scientismo che nega la poesia, e riaffermare le metafore potenti che danno un significato più profondo alle stagioni, come pure alle trasformazioni che osserviamo e percepiamo in natura, ai colori che si sfumano, al freddo e al caldo.
Che altro dire con ciò? Il tempo mi ricorda che i cinque euri che ho pagato erano relativi solo a tre ore di connessione internet. Il tempo, come è dunque evidente, rinvia a un medio che offre di sé una nuova interpretazione di rimando.
Il tempo: forse una metafora per circoscriverlo non c'è. Ma qui si parla d'altro, e cioé di quest'esperienza russa che m'attende, che in qualche maniera segna un limite, un punto di confine, e forse la conclusione del viaggio esistenziale che ho iniziato ormai molto tempo fa - già molto prima, probabilmente, del mio controverso soggiorno maltese.
Dietro alle banalità ci stanno cose che meritano la nostra attenzione, forse più di quanto noi ci si renda conto. Io credo fermamente che dietro all'asserzione "non esistono più le mezze stagioni" si celi un significato che si è perduto in età remote, forse per colpa di una retorica volgare e indegnamente filologica.
Questo discorso, che erroneamente mi svia al di fuori dell'orbita russa, è pur sempre pertinente al tema del blog, ossia la fenomenologia delle cose belle, che sono pur sempre belle perché significative.
Ma sul tema del limite prima o poi dovrò svolgere un'indagine approfondita, perché la sua ricchezza di sfumature non può certo esaurirsi in una pagina.
Marzio Valdambrini
Sto parlando in chat con Fernanda, che è stata a Mosca poco tempo fa. Mi suggerisce alcune destinazioni che dovrei includere nel mio vagare. Ma il tempo è poco: solo una settimana mi tratterrò in quella terra fredda che vanta una tradizione tanto lontana dal nostro Occidente. Intanto, il freddo è arrivato fin qui.
Mi viene da pensare che forse lo stesso freddo che sento in questa hall, vicino casa e vicino alla spiaggia tirrenica, sia una presentificazione (termine di cui i fenomenologi tedeschi hanno abusato, usandolo nella loro lingua fin troppo tecnicistica) del freddo russo, in cui presto verrò a trovarmi.
Vi è certamente una spiegazione scientifica, che i potenti strumenti modernissimi di rilevazione meteorologica possono fornire... Ma noi, che siamo eredi di una tradizione stilnovista, eredi di Dante e di Boccaccio, del Petrarca e dell'Ariosto, di una tradizione insomma che non ha nulla a che spartire col razionalismo europeo e con le sue escrescenze giacobine che nulla hanno dimostrato se non le inevitabili derivazioni violentemente irrazionali del culto della ragione, ecco, noi dobbiamo rifiutare tale scientismo che nega la poesia, e riaffermare le metafore potenti che danno un significato più profondo alle stagioni, come pure alle trasformazioni che osserviamo e percepiamo in natura, ai colori che si sfumano, al freddo e al caldo.
Che altro dire con ciò? Il tempo mi ricorda che i cinque euri che ho pagato erano relativi solo a tre ore di connessione internet. Il tempo, come è dunque evidente, rinvia a un medio che offre di sé una nuova interpretazione di rimando.
Il tempo: forse una metafora per circoscriverlo non c'è. Ma qui si parla d'altro, e cioé di quest'esperienza russa che m'attende, che in qualche maniera segna un limite, un punto di confine, e forse la conclusione del viaggio esistenziale che ho iniziato ormai molto tempo fa - già molto prima, probabilmente, del mio controverso soggiorno maltese.
Dietro alle banalità ci stanno cose che meritano la nostra attenzione, forse più di quanto noi ci si renda conto. Io credo fermamente che dietro all'asserzione "non esistono più le mezze stagioni" si celi un significato che si è perduto in età remote, forse per colpa di una retorica volgare e indegnamente filologica.
Questo discorso, che erroneamente mi svia al di fuori dell'orbita russa, è pur sempre pertinente al tema del blog, ossia la fenomenologia delle cose belle, che sono pur sempre belle perché significative.
Ma sul tema del limite prima o poi dovrò svolgere un'indagine approfondita, perché la sua ricchezza di sfumature non può certo esaurirsi in una pagina.
Marzio Valdambrini
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domenica 12 settembre 2010
Il domani è in ritardo
La vita, con le sue divaricazioni impreviste (pur se prevedibili, con la logica della nottola di Minerva) mi ha tenuto lontano dall'aggiornamento del blog per un lasso di dieci giorni. Questo tempo - lo confesso a me stesso - non l'ho impiegato in maniera particolarmente proficua. Certo: ho preparato il progetto di ricerca (in modo un po' abborracciato, è vero, e pure con errori ortografici di cui ho vergogna) con cui mi presenterò al concorso per il dottorato tridentino, ma dopotutto c'è un senso di nonsocché, di insoddisfazione, che mi fa dubitare della qualità degli ultimi dieci giorni.
Epicuro mi invita a riflettere sul fatto che non importa vivere di più, quanto invece conta vivere meglio il tempo che si ha. Non riesco e forse non riuscirò mai ad essere epicureo fino in fondo, lo so bene.
Nessun movimento di auto-coscienza può abbassarmi al punto di dubitare delle caratteristiche profonde del mio essere; perciò voglio parlare d'altro, questa sera, e magari tornerò in futuro su quanto ora si lascia in sospeso.
Il tema del post scaturisce da una questione che mi ha posto Caterina Cavaliere, alcuni giorni fa su Facebook.
Costei mi ha scritto: "Dimmi, Marzio, siamo forse uomini soli?".
Sull'istante, non ho trovato cosa più giusta che risponderle usando la canzone dei Pooh, che certo manifesta il sentimento di impotenza che è figlio del tempo, col risvolto patetico che le forme odierne d'espressione offrono alle questioni umane, ridicole o serissime che siano. Dopo un paio di giorni, in cui ci ho pensato pochissimo ma in compenso ho letto pagine che mi hanno distratto, credo di aver trovato la via per arrivare a comprendere il problema in un orizzonte più vasto. Ero partito dalla supposizione che i classici del pensiero siano classici perché non perdono di attualità.
Ho cercato perciò una risposta in Eric Voegelin, ultimo grande filosofo della politica. La sua disamina dei movimenti gnostici moderni, quali sarebbero le ideologie che hanno imposto i propri idoli a discapito della vecchia e corruttibile tradizione, è brillante è geniale. Le sue accuse infuocate contro Marx, Nietzsche (gli manca Freud, purtroppo), che lui chiama "truffatori intellettuali", contribuiscono a concludere lo smascheramento di questi ciabattoni; smascheramento che già da un po' di tempo è in corso. Secondo Voegelin (Cfr. Il mito del mondo nuovo) è assai significativo che il pensiero greco non possa considerare una fine diversa, per Prometeo, che la condanna irrefutabile di Zeus, e il dileggiamento di contorno subito da Ermete. Prometeo ha trasgredito le leggi dell'ordine cosmico e sociale, e perciò subisce le conseguenze prescritte dalla Giustizia (che è con la maiuscola, perché l'unica giustizia che goda di una legittimità superiore all'umano). Alla base del movimento gnostico di cui Marx è invece l'artefice, vi è è il trionfo di Prometeo. Quest'ultimo riesce nel suo progetto sovversivo, frega il cosmo e gli déi, e finisce per distruggere un mondo che deve rifondare nuove istituzioni. Nasce così una nuova religione, che è religione dell'uomo, anch'essa con una episteme, con un proprio "divieto di fare domande", con delle verità che si fanno dogma, etcetera, con tutto quel che costituisce una vera e propria religione secolare.
Il marxismo, una volta divenuto tale, si crea la sua bella fetta di fanatici, di martiri, di esegeti ortodossi o eretici, un movimento politico che si fa totalitarismo e tutta la barbarie che segue. (E poi, infine, seguono dei coglioni che dicono che il povero Karl Marx non c'entrava nulla e che è stato frainteso).
Congiungiamo la questione degli uomini soli a questi illustri filosofi, Marx e Nietzsche. Non trovo risposta nel pensiero di questi autori, pur facendo uno sforzo. Forse, penso, questi non sono nemmeno dei classici. Che classici sono, se la storia condanna i loro devoti interpreti, e se non sono utili a insegnare qualcosa a quei giovani che nel mondo post-tutto brancolano nelle tenebre più oscure? Dobbiamo rottamarli (e con loro anche Comte e Freud), e seguire Voegelin nell'opera di ripensare la filosofia, e se si vuole, la storia della filosofia.
La dobbiamo ripensare come disciplina di auto-ordinamento del proprio io interiore. Soltanto così saremo padroni del proprio sé, saremo consci del significato del nostro essere-nel-mondo (termine heideggeriano) del nostro essere-soddisfatti (termine non heideggeriano), del nostro essere-sé stessi (termine forse non heideggeriano). La coscienza dell'essere soli può scoprirsi in questa maniera.
Certo, alla domanda di Caterina rispondo: siamo uomini soli, perché la vita ci vede nella veste di individuali. Siamo nati da soli e moriremo da soli. Forse vivremo soli a sprazzi, o non ce ne accorgeremo perché avremo la televisione accesa che ci illude di essere in compagnia. O magari sarà qualcuno che ci parla ma non ci ascolta a darci l'illusione di essere in compagnia. Ma in tutti questi casi, è chiara una cosa: che la questione della solitudine dipenderà sempre dalla coscienza che di essa si ha.
E' lo scarso dominio che l'uomo d'oggi ha del proprio sé, a causare l'insopportabilità della solitudine.
Riconoscerlo, tuttavia, è segno di sensibilità. Perciò è meglio accorgersi di esser soli anche quando si è circondati da persone distanti. (Ho cercato di tematizzare questo in un discorso del Cliente, ma poi ho scoperto di aver scritto male). Riscoprire il proprio sé porta una conclusione che apre al suo rovesciamento: scoprirsi soli nell'aspetto in cui l'individuo si rispecchia nel generale, comporta l'immediato scoprirsi raccolti in una condizione che trascende l'individualità, che ci incorpora in un disegno vasto e superiore, nel quale non esiste la solitudine che il semplice individuo conosce. Vi è qualcosa dello stesso passaggio che l'antica saggezza induista definisce come il movimento di congiunzione-immedesimazione tra Brahman e Atman.
Sono adesso le ore 1 di notte, penso di riprendere con più lucidità il discorso prossimamente, ma nel frattempo vado a stendere la biancheria appena uscita dalla lavatrice.
Epicuro mi invita a riflettere sul fatto che non importa vivere di più, quanto invece conta vivere meglio il tempo che si ha. Non riesco e forse non riuscirò mai ad essere epicureo fino in fondo, lo so bene.
Nessun movimento di auto-coscienza può abbassarmi al punto di dubitare delle caratteristiche profonde del mio essere; perciò voglio parlare d'altro, questa sera, e magari tornerò in futuro su quanto ora si lascia in sospeso.
Il tema del post scaturisce da una questione che mi ha posto Caterina Cavaliere, alcuni giorni fa su Facebook.
Costei mi ha scritto: "Dimmi, Marzio, siamo forse uomini soli?".
Sull'istante, non ho trovato cosa più giusta che risponderle usando la canzone dei Pooh, che certo manifesta il sentimento di impotenza che è figlio del tempo, col risvolto patetico che le forme odierne d'espressione offrono alle questioni umane, ridicole o serissime che siano. Dopo un paio di giorni, in cui ci ho pensato pochissimo ma in compenso ho letto pagine che mi hanno distratto, credo di aver trovato la via per arrivare a comprendere il problema in un orizzonte più vasto. Ero partito dalla supposizione che i classici del pensiero siano classici perché non perdono di attualità.
Ho cercato perciò una risposta in Eric Voegelin, ultimo grande filosofo della politica. La sua disamina dei movimenti gnostici moderni, quali sarebbero le ideologie che hanno imposto i propri idoli a discapito della vecchia e corruttibile tradizione, è brillante è geniale. Le sue accuse infuocate contro Marx, Nietzsche (gli manca Freud, purtroppo), che lui chiama "truffatori intellettuali", contribuiscono a concludere lo smascheramento di questi ciabattoni; smascheramento che già da un po' di tempo è in corso. Secondo Voegelin (Cfr. Il mito del mondo nuovo) è assai significativo che il pensiero greco non possa considerare una fine diversa, per Prometeo, che la condanna irrefutabile di Zeus, e il dileggiamento di contorno subito da Ermete. Prometeo ha trasgredito le leggi dell'ordine cosmico e sociale, e perciò subisce le conseguenze prescritte dalla Giustizia (che è con la maiuscola, perché l'unica giustizia che goda di una legittimità superiore all'umano). Alla base del movimento gnostico di cui Marx è invece l'artefice, vi è è il trionfo di Prometeo. Quest'ultimo riesce nel suo progetto sovversivo, frega il cosmo e gli déi, e finisce per distruggere un mondo che deve rifondare nuove istituzioni. Nasce così una nuova religione, che è religione dell'uomo, anch'essa con una episteme, con un proprio "divieto di fare domande", con delle verità che si fanno dogma, etcetera, con tutto quel che costituisce una vera e propria religione secolare.
Il marxismo, una volta divenuto tale, si crea la sua bella fetta di fanatici, di martiri, di esegeti ortodossi o eretici, un movimento politico che si fa totalitarismo e tutta la barbarie che segue. (E poi, infine, seguono dei coglioni che dicono che il povero Karl Marx non c'entrava nulla e che è stato frainteso).
Congiungiamo la questione degli uomini soli a questi illustri filosofi, Marx e Nietzsche. Non trovo risposta nel pensiero di questi autori, pur facendo uno sforzo. Forse, penso, questi non sono nemmeno dei classici. Che classici sono, se la storia condanna i loro devoti interpreti, e se non sono utili a insegnare qualcosa a quei giovani che nel mondo post-tutto brancolano nelle tenebre più oscure? Dobbiamo rottamarli (e con loro anche Comte e Freud), e seguire Voegelin nell'opera di ripensare la filosofia, e se si vuole, la storia della filosofia.
La dobbiamo ripensare come disciplina di auto-ordinamento del proprio io interiore. Soltanto così saremo padroni del proprio sé, saremo consci del significato del nostro essere-nel-mondo (termine heideggeriano) del nostro essere-soddisfatti (termine non heideggeriano), del nostro essere-sé stessi (termine forse non heideggeriano). La coscienza dell'essere soli può scoprirsi in questa maniera.
Certo, alla domanda di Caterina rispondo: siamo uomini soli, perché la vita ci vede nella veste di individuali. Siamo nati da soli e moriremo da soli. Forse vivremo soli a sprazzi, o non ce ne accorgeremo perché avremo la televisione accesa che ci illude di essere in compagnia. O magari sarà qualcuno che ci parla ma non ci ascolta a darci l'illusione di essere in compagnia. Ma in tutti questi casi, è chiara una cosa: che la questione della solitudine dipenderà sempre dalla coscienza che di essa si ha.
E' lo scarso dominio che l'uomo d'oggi ha del proprio sé, a causare l'insopportabilità della solitudine.
Riconoscerlo, tuttavia, è segno di sensibilità. Perciò è meglio accorgersi di esser soli anche quando si è circondati da persone distanti. (Ho cercato di tematizzare questo in un discorso del Cliente, ma poi ho scoperto di aver scritto male). Riscoprire il proprio sé porta una conclusione che apre al suo rovesciamento: scoprirsi soli nell'aspetto in cui l'individuo si rispecchia nel generale, comporta l'immediato scoprirsi raccolti in una condizione che trascende l'individualità, che ci incorpora in un disegno vasto e superiore, nel quale non esiste la solitudine che il semplice individuo conosce. Vi è qualcosa dello stesso passaggio che l'antica saggezza induista definisce come il movimento di congiunzione-immedesimazione tra Brahman e Atman.
Sono adesso le ore 1 di notte, penso di riprendere con più lucidità il discorso prossimamente, ma nel frattempo vado a stendere la biancheria appena uscita dalla lavatrice.
mercoledì 18 agosto 2010
Cossiga non c'è più, e intanto Irene, Vanessa e Francesca tornano in Italy
Pochi lo sanno, ma Francesco Cossiga, il celebre democristiano che voleva prendere a picconate l'Italia, nella sua poliforme esistenza è stato pure un cavaliere di Malta. Non è una cazzata! Guardate la pagina su Wikipedia che gli è dedicata. E siccome qui ci troviamo a Malta (e in particolare a Msida, in un posto afoso in cui un alito di vento non arriva neanche a pagarlo, e in cui per sopravvivere bisogna affidarsi al ventilatore old-style se non al condizionatore) avvertiamo la necessità di trarre un parallelo.
Il parallelo è il seguente. Il vecchio senatore a vita, raggiunta ormai un'età veneranda, se ne va nel mondo dei più e lascia la poltrona a qualche giovane rampollo di belle speranze che attende la gloria nel mondo della politica (il giovane rampollo, si intende, avrà altrettanti agganci e sarà forse altrettanto disposto a salvare la democrazia, a fronte di minacciose contestazioni). Un uomo se ne va, e intanto al mondo ne viene un altro.
E' il mistero della vita: si viene e si va. Tutto è transitivo, e ogni cosa sembra destinata a divenire altro.
In quest'orizzonte di mutamento va inscritta anche l'esperienza di Irene, Francesca e Vanessa. Queste sono tre stagiste che hanno appena terminato il progetto Leonardo. Un progetto di tre mesi, che hanno affrontato col massimo entusiasmo, con la determinazione che oggi è necessaria per chiunque abbia la seria intenzione di avviare qualcosa di importante nella vita. Le loro attese, i loro sogni, le loro ambizioni avranno trovato un responso, una felice ricompensa? Il futuro è pieno di incognite, ma la luce che lo illumina proviene dal presente.
Le ragazze sanno che oggi tutto è difficile. Le cose belle - diceva Socrate, e già lo abbiamo ricordato altrove - sono difficili.
Non ci vogliamo accontentare, noi. Siamo preparati alle intemperie, possiamo soffrire e continueremo a soffrire, nell'impossibilità di veder trionfare la giustizia, quella che premia i sacrifici e punisce gli stronzi.
Il discorso si sta allargando in maniera poco coerente, e forse dobbiamo circoscriverlo allo specifico evento della partenza delle ragazze. La loro esperienza maltese è conclusa e un'altra - sicuramente diversa, sicuramente ricca di più concrete finalità - inizierà. Chi troverà lavoro, chi proseguirà gli studi, chi riuscirà a fare entrambe le cose. Chi si innamorerà. O chi invece si ri-innamorerà. Chi invece non ha bisogno di nulla di ciò, e forse continuerà a vivere come viveva esattamente prima di intraprendere il viaggio maltese; in tal caso tornerà quello che era prima, salvo avere dei contatti in più su Facebook.
Cosa possiamo dire, allora, se non un augurio di prosperità e serenità a queste ragazze, che hanno messo in gioco il loro tempo e hanno accettato di vivere un'esperienza come lo stage appena trascorso? Un abbraccio a tutte voi, ragazze! Nessuno vi dimenticherà! (anche perché vi abbiamo taggato in tutte le foto che conserviamo di voi).
Il rimpianto per il tempo passato insieme, nel caso particolare il tempo che abbiamo vissuto con voi in giro per l'isola e nell'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb, è un sentimento che si ascrive al nocciolo delle cose belle.
Ci rievoca anche le parole con cui Ernst Junger, l'instancabile esteta ed entomologo tedesco, apriva il suo romanzo Sulle scogliere di marmo.
"Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!".
Il parallelo è il seguente. Il vecchio senatore a vita, raggiunta ormai un'età veneranda, se ne va nel mondo dei più e lascia la poltrona a qualche giovane rampollo di belle speranze che attende la gloria nel mondo della politica (il giovane rampollo, si intende, avrà altrettanti agganci e sarà forse altrettanto disposto a salvare la democrazia, a fronte di minacciose contestazioni). Un uomo se ne va, e intanto al mondo ne viene un altro.
E' il mistero della vita: si viene e si va. Tutto è transitivo, e ogni cosa sembra destinata a divenire altro.
In quest'orizzonte di mutamento va inscritta anche l'esperienza di Irene, Francesca e Vanessa. Queste sono tre stagiste che hanno appena terminato il progetto Leonardo. Un progetto di tre mesi, che hanno affrontato col massimo entusiasmo, con la determinazione che oggi è necessaria per chiunque abbia la seria intenzione di avviare qualcosa di importante nella vita. Le loro attese, i loro sogni, le loro ambizioni avranno trovato un responso, una felice ricompensa? Il futuro è pieno di incognite, ma la luce che lo illumina proviene dal presente.
Le ragazze sanno che oggi tutto è difficile. Le cose belle - diceva Socrate, e già lo abbiamo ricordato altrove - sono difficili.
Non ci vogliamo accontentare, noi. Siamo preparati alle intemperie, possiamo soffrire e continueremo a soffrire, nell'impossibilità di veder trionfare la giustizia, quella che premia i sacrifici e punisce gli stronzi.
Il discorso si sta allargando in maniera poco coerente, e forse dobbiamo circoscriverlo allo specifico evento della partenza delle ragazze. La loro esperienza maltese è conclusa e un'altra - sicuramente diversa, sicuramente ricca di più concrete finalità - inizierà. Chi troverà lavoro, chi proseguirà gli studi, chi riuscirà a fare entrambe le cose. Chi si innamorerà. O chi invece si ri-innamorerà. Chi invece non ha bisogno di nulla di ciò, e forse continuerà a vivere come viveva esattamente prima di intraprendere il viaggio maltese; in tal caso tornerà quello che era prima, salvo avere dei contatti in più su Facebook.
Cosa possiamo dire, allora, se non un augurio di prosperità e serenità a queste ragazze, che hanno messo in gioco il loro tempo e hanno accettato di vivere un'esperienza come lo stage appena trascorso? Un abbraccio a tutte voi, ragazze! Nessuno vi dimenticherà! (anche perché vi abbiamo taggato in tutte le foto che conserviamo di voi).
Il rimpianto per il tempo passato insieme, nel caso particolare il tempo che abbiamo vissuto con voi in giro per l'isola e nell'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb, è un sentimento che si ascrive al nocciolo delle cose belle.
Ci rievoca anche le parole con cui Ernst Junger, l'instancabile esteta ed entomologo tedesco, apriva il suo romanzo Sulle scogliere di marmo.
"Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!".
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lunedì 16 agosto 2010
L'amore al tempo del calore - E Letizia se ne andrà
Domani Letizia se ne andrà. Alle ore 7 il suo volo la porterà lontano da qui, da quest'isola selvaggia e battuta dal sole africano, in cui l'uomo ha stabilito un precario e difficile accordo con la Storia. Trovavo nelle pagine di Garcia Marquez una frase che descriveva il rapporto simbiotico tra l'uomo e la natura. Purtroppo il tempo, e gli impegni variegati che mi obbligano a non perseguire in certi propositi, mi han fatto dimenticare il riferimento preciso; per non rischiare un errore eviterò di fare citazioni.
Dicevo, insomma, che il volo di domani mattina porterà via il rosso ruggine dei capelli di Letizia, nonché il suo sorriso. Che ci resterà, per allietare queste giornate che il mondo postmoderno ci obbliga a trascorrere davanti a Facebook? Che ne sarà di Letizia, ora che il progetto Leonardo è arrivato al capolinea, e per lei si tratta di voltar pagina? La sua prossima avventura le farà dimenticare i momenti maltesi che ha vissuto sull'isola? (Non con me, visto che ci siam visti poco e in maniera sfuggevole). La vita ha per lei in serbo tante sorprese. Non sappiamo quali, ma certo saranno floride e piene di fortuna, perché così è l'orientamento aperto ed entusiasta con cui Letizia si rivolge alla vita.
Deh, ma questo post sta venendo fuori un pappone; cerchiamo di tornare sui binari del solito stile.
Dobbiamo anche domandarci: e che ne sarà di noi, al termine di quest'esperienza? Cosa ci porteremo nel cuore, e come saremo cambiati? Riconosceremo le nostre nuove angosce, che forse rispecchieranno quelle antiche, cioé del tempo che precedeva il Leonardo, e forse precedeva la nostra coscienza immatura delle cose belle? Qualcosa mi spinge a pensare che è proprio quella coscienza immatura, che ci fa godere con più trasporto delle cose belle.
Ma per questo, scriverò un altro post.
Adesso è l'ora della cena.
Dicevo, insomma, che il volo di domani mattina porterà via il rosso ruggine dei capelli di Letizia, nonché il suo sorriso. Che ci resterà, per allietare queste giornate che il mondo postmoderno ci obbliga a trascorrere davanti a Facebook? Che ne sarà di Letizia, ora che il progetto Leonardo è arrivato al capolinea, e per lei si tratta di voltar pagina? La sua prossima avventura le farà dimenticare i momenti maltesi che ha vissuto sull'isola? (Non con me, visto che ci siam visti poco e in maniera sfuggevole). La vita ha per lei in serbo tante sorprese. Non sappiamo quali, ma certo saranno floride e piene di fortuna, perché così è l'orientamento aperto ed entusiasta con cui Letizia si rivolge alla vita.
Deh, ma questo post sta venendo fuori un pappone; cerchiamo di tornare sui binari del solito stile.
Dobbiamo anche domandarci: e che ne sarà di noi, al termine di quest'esperienza? Cosa ci porteremo nel cuore, e come saremo cambiati? Riconosceremo le nostre nuove angosce, che forse rispecchieranno quelle antiche, cioé del tempo che precedeva il Leonardo, e forse precedeva la nostra coscienza immatura delle cose belle? Qualcosa mi spinge a pensare che è proprio quella coscienza immatura, che ci fa godere con più trasporto delle cose belle.
Ma per questo, scriverò un altro post.
Adesso è l'ora della cena.
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venerdì 13 agosto 2010
Le stelle non le ho viste
Ho fatto la doccia, ho mangiato una specie di kinder delice, e infine ho accompagnato gli amici alla fermata dell'autobus. Sarei dovuto andare con loro a Valletta, dove un altro autobus ci avrebbe portati a Ta-Qali, ossia al parco nazionale maltese. Era previsto che avremmo guardato le stelle cadenti.
Da ultimo, però, alcuni pensieri repentini mi hanno fermato e mi hanno spinto a riflettere: perché cercare uno spettacolo così triste, com'è quello delle stelle che cadono? Il significato della morte, della caduta, dello spegnersi o del crepare, non va confuso con l'estetica dei luoghi comuni, che vuole "romantico" qualcosa che ha significato solo in riferimento a un qualche immaginario di riferimento. La fenomenologia dei sensi, prima di tutto, esige che le cose siano apprezzabili per quel che sono di per sé.
(Questa considerazione mi viene adesso spontanea, se avessi voluto cercare un alibi per il mio dietro-front, che m'ha fatto tornare poi a casa. Avevo anche un'altra motivazione, che trovo però giusto adesso tralasciare, perché poco adatta all'estetica del discorso).
Stavamo parlando delle stelle cadenti.
Mi torna in mente un passo del Paradise Lost di Milton, che lessi molto tempo fa. (Forse addirittura lo confondo con qualcos'altro, complice appunto la distanza che mi separa dalla stessa lettura). Qui, ricordo, si dice che le stelle importanti sono già cadute, e quelle che restano in cielo sono i pezzettini che quelle grosse, le stelle serie, hanno lasciato per aria al momento del collasso. Un altro poeta, meno lirico e forse ancor meno anglosassone, ha scritto che in cielo si vede risplendere la luce di stelle che sono esplose e percio' decedute da migliaia di anni, e solo con un enorme ritardo noi vediamo lo splendore a causa appunto dell'enorme distanza di anni luce che ci separa.
Le stelle cadenti mi portano a pensare questo, appunto: gli anni e la luce.
Alcuni anni fa avevo pensato di scrivere una poesia, ma poi mi è sembrata una cosa inutile. Ci sono già i tecnici che lo fanno di professione, e magari quel che loro dicono sollecita la fantasia molto più di quanto facciano i reveurs, cioè quelli che non si preoccupano di dimostrare la verità (e cioè l'inclusione in una rete di significati intrecciati e di circolare rimando).
Adesso sono le 13,25, si avvicina cosi' l'ora di chiusura dell'ufficio. Oggi pomeriggio andrò con Bina a vedere il quadro di Caravaggio che sta nella Cattedrale di Saint John. Cercherò di scrivere qualcosa in proposito, avendo finalmente un oggetto d'arte per il blog, che appunto vuol trattare di cose esteticamente importanti, piccole come un lapislazzulo o grandi come una cucina a incasso.
Da ultimo, però, alcuni pensieri repentini mi hanno fermato e mi hanno spinto a riflettere: perché cercare uno spettacolo così triste, com'è quello delle stelle che cadono? Il significato della morte, della caduta, dello spegnersi o del crepare, non va confuso con l'estetica dei luoghi comuni, che vuole "romantico" qualcosa che ha significato solo in riferimento a un qualche immaginario di riferimento. La fenomenologia dei sensi, prima di tutto, esige che le cose siano apprezzabili per quel che sono di per sé.
(Questa considerazione mi viene adesso spontanea, se avessi voluto cercare un alibi per il mio dietro-front, che m'ha fatto tornare poi a casa. Avevo anche un'altra motivazione, che trovo però giusto adesso tralasciare, perché poco adatta all'estetica del discorso).
Stavamo parlando delle stelle cadenti.
Mi torna in mente un passo del Paradise Lost di Milton, che lessi molto tempo fa. (Forse addirittura lo confondo con qualcos'altro, complice appunto la distanza che mi separa dalla stessa lettura). Qui, ricordo, si dice che le stelle importanti sono già cadute, e quelle che restano in cielo sono i pezzettini che quelle grosse, le stelle serie, hanno lasciato per aria al momento del collasso. Un altro poeta, meno lirico e forse ancor meno anglosassone, ha scritto che in cielo si vede risplendere la luce di stelle che sono esplose e percio' decedute da migliaia di anni, e solo con un enorme ritardo noi vediamo lo splendore a causa appunto dell'enorme distanza di anni luce che ci separa.
Le stelle cadenti mi portano a pensare questo, appunto: gli anni e la luce.
Alcuni anni fa avevo pensato di scrivere una poesia, ma poi mi è sembrata una cosa inutile. Ci sono già i tecnici che lo fanno di professione, e magari quel che loro dicono sollecita la fantasia molto più di quanto facciano i reveurs, cioè quelli che non si preoccupano di dimostrare la verità (e cioè l'inclusione in una rete di significati intrecciati e di circolare rimando).
Adesso sono le 13,25, si avvicina cosi' l'ora di chiusura dell'ufficio. Oggi pomeriggio andrò con Bina a vedere il quadro di Caravaggio che sta nella Cattedrale di Saint John. Cercherò di scrivere qualcosa in proposito, avendo finalmente un oggetto d'arte per il blog, che appunto vuol trattare di cose esteticamente importanti, piccole come un lapislazzulo o grandi come una cucina a incasso.
mercoledì 11 agosto 2010
Il tempo maltese e le domande per strada (1)
Dopo l'ufficio, nel pomeriggio, ho trovato ancora del tempo da buttare. Così ho percorso un tragitto, attraverso un sentiero di terra e asfalto tra la vegetazione mediterranea, lungo una fila di cactus e roba del genere. In questa maniera sono giunto alla palestra, dove mi sono iscritto per un mese. Vedrò così di conciliare il tempo secolare, che è qualitativemente indifferenziato, (ritrovo una considerazione di Charles Taylor nel libro che ho finito di leggere due giorni fa) e l'insoddisfacente varietà di svaghi che questa posizione mi offre.
Ho riflettuto ancora un po' su questa esperienza di stage. Forse non era la scelta da prendere; forse mi sarei dovuto comportare in altro modo. Insomma, col curriculum che ho, potevo trovarmi un lavoro serio anziché venir qua a sudare (per il caldo più che per la fatica) e ad imparanoiarmi per un lavoro che lavoro non è.
Ma chi ha la risposta a questo enigma, visto soprattutto che la domanda non so (e forse nessuno sa) come si formuli correttamente? Se mi domando: "Che lavoro potrei trovare in questo momento", allora mi sbaglio per una visione troppo minima; se mi domandassi "Che cosa mi piacerebbe fare", invece sarei tanto ingenuo da chiedermi qualcosa di troppo ideale e dunque astratto. Le domande intermedie non hanno un referente; e io non sono in grado di stabilire il futuro.
Prendere quello che passa, giorno per giorno, finisce per distruggere chi vuole sentirsi la terra ferma sotto i piedi.
Non ci credo alla modernità liquida, all'amore liquido, a tutte le cose liquide di cui un vecchio signore ha parlato. Credo che tutto sia solido; il tempo, il cuore, il lavoro. La struttura di ogni cosa è infatti solida, ma risente inevitabilmente di quel che noi ci infiliamo dentro. Ci mettiamo cose soffici e fragili, e tutto ci sembra ugualmente fragile. Se dipendesse solo dalle nostre intenzioni...
Ma sto andando fuori tema. Il blog vuole parlare di cose belle, e queste ancora si sfuggono.
Platone, nell'Ippia Maggiore, faceva dire infine a Socrate che "le cose belle sono difficili", e appunto, come non essere d'accordo, alla luce delle situazioni che ci avvelenano i pensieri sul mondo e su ogni cosa, come quelli che viviamo in una situazione come questa?
Niente lavoro serio, niente soldi, niente soddisfazioni artistiche. Le cose belle sono difficili... perché è difficile riconoscerle. L'incertezza ci porta alla confusione; non siamo padroni del nostro giudizio, quando siamo spinti a pensare in base a quel che vorremmo e non é, a quel che dovrebbe essere e non è, a quel che siamo costretti a fare e quel che ci sarà sempre precluso...
E così, dopo essermi iscritto in palestra, sono tornato a casa. Ho mangiato due piatti di pasta, e poi ho raggiunto Letizia e altri stagisti alla spiaggia di Sliema.
Erano già le sei, e tirava un venticello fresco che mi faceva sentire in pace con me stesso.
C'era meno gente del solito, forse perché i turisti hanno cambiato idea e hanno deciso di andarsene. (Frasi del genere ci stanno bene, per chiudere un post quando non si ha granché da dire. Non ricordo quello che volessi scrivere, quando ho iniziato a scrivere. Ma è vero, a quanto ho visto, che le cose più grandi si fanno senza avere idee in proposito... Insomma, sono discorsi da mezzanotte passata. Adesso è l'ora che mi sdrai sul letto maltese, e qui chiuda gli occhi).
Ho riflettuto ancora un po' su questa esperienza di stage. Forse non era la scelta da prendere; forse mi sarei dovuto comportare in altro modo. Insomma, col curriculum che ho, potevo trovarmi un lavoro serio anziché venir qua a sudare (per il caldo più che per la fatica) e ad imparanoiarmi per un lavoro che lavoro non è.
Ma chi ha la risposta a questo enigma, visto soprattutto che la domanda non so (e forse nessuno sa) come si formuli correttamente? Se mi domando: "Che lavoro potrei trovare in questo momento", allora mi sbaglio per una visione troppo minima; se mi domandassi "Che cosa mi piacerebbe fare", invece sarei tanto ingenuo da chiedermi qualcosa di troppo ideale e dunque astratto. Le domande intermedie non hanno un referente; e io non sono in grado di stabilire il futuro.
Prendere quello che passa, giorno per giorno, finisce per distruggere chi vuole sentirsi la terra ferma sotto i piedi.
Non ci credo alla modernità liquida, all'amore liquido, a tutte le cose liquide di cui un vecchio signore ha parlato. Credo che tutto sia solido; il tempo, il cuore, il lavoro. La struttura di ogni cosa è infatti solida, ma risente inevitabilmente di quel che noi ci infiliamo dentro. Ci mettiamo cose soffici e fragili, e tutto ci sembra ugualmente fragile. Se dipendesse solo dalle nostre intenzioni...
Ma sto andando fuori tema. Il blog vuole parlare di cose belle, e queste ancora si sfuggono.
Platone, nell'Ippia Maggiore, faceva dire infine a Socrate che "le cose belle sono difficili", e appunto, come non essere d'accordo, alla luce delle situazioni che ci avvelenano i pensieri sul mondo e su ogni cosa, come quelli che viviamo in una situazione come questa?
Niente lavoro serio, niente soldi, niente soddisfazioni artistiche. Le cose belle sono difficili... perché è difficile riconoscerle. L'incertezza ci porta alla confusione; non siamo padroni del nostro giudizio, quando siamo spinti a pensare in base a quel che vorremmo e non é, a quel che dovrebbe essere e non è, a quel che siamo costretti a fare e quel che ci sarà sempre precluso...
E così, dopo essermi iscritto in palestra, sono tornato a casa. Ho mangiato due piatti di pasta, e poi ho raggiunto Letizia e altri stagisti alla spiaggia di Sliema.
Erano già le sei, e tirava un venticello fresco che mi faceva sentire in pace con me stesso.
C'era meno gente del solito, forse perché i turisti hanno cambiato idea e hanno deciso di andarsene. (Frasi del genere ci stanno bene, per chiudere un post quando non si ha granché da dire. Non ricordo quello che volessi scrivere, quando ho iniziato a scrivere. Ma è vero, a quanto ho visto, che le cose più grandi si fanno senza avere idee in proposito... Insomma, sono discorsi da mezzanotte passata. Adesso è l'ora che mi sdrai sul letto maltese, e qui chiuda gli occhi).
martedì 10 agosto 2010
10 AGOSTO 2010 (morning)
La vita scorre troppo in fretta, e me ne accorgo nei momenti in cui ho cose stupide da fare.
Questa mattina, dopo il plum-cake, ho pensato a quel che mi avrebbe atteso durante la mattinata. Assolutamente nulla, fuorche' perdite di tempo per le quali non son neppure retribuito. (Questa tastiera maltese non ha gli accenti, e cosi' dona un che di esotico al linguaggio).
Sto pensando allo ieri, ma non perche' io sia una persona particolarmente riflessiva. Si tratta di questioni importanti: l'amore, il futuro, insomma, avete capito, quelle cose con cui tutti si ha da fare e che spesso entrano di prepotenza nei blogs, complici anche le strategie del web marketing.
E invece qui si parla di cose serie.
Non so se faccio bene a parlare delle mie cose sul web... C'e' l'impressione che persone poco simpatetiche possano leggere i miei stati d'animo, e non comprendere le sfumature di certe mie angoscie, di certe solitudini che vogliono restare tali, di certi scompensi emotivi che si traducono in reazioni quasi opposte.
Percio', faro' il possibile per dissimulare quel che e' giusto che resti soltanto mio.
Sono fermamente contrario all'esteriorizzazione. Credo che le cose belle siano belle perche' noi siamo capaci di cogliere e godere di questa bellezza. Ma qui si tratta di un rapporto personale, che non e' possibile condividere se non in una piccola misura.
Adesso, mi rendo conto pero' di aver travisato il discorso da cui ero partito. Non ricordo cosa volessi dire. Mi appresto adesso a bere un altro caffe', che stavolta e' il caffe' istantaneo. Qua a Malta un buon espresso e' difficile da trovare.
Questa mattina, dopo il plum-cake, ho pensato a quel che mi avrebbe atteso durante la mattinata. Assolutamente nulla, fuorche' perdite di tempo per le quali non son neppure retribuito. (Questa tastiera maltese non ha gli accenti, e cosi' dona un che di esotico al linguaggio).
Sto pensando allo ieri, ma non perche' io sia una persona particolarmente riflessiva. Si tratta di questioni importanti: l'amore, il futuro, insomma, avete capito, quelle cose con cui tutti si ha da fare e che spesso entrano di prepotenza nei blogs, complici anche le strategie del web marketing.
E invece qui si parla di cose serie.
Non so se faccio bene a parlare delle mie cose sul web... C'e' l'impressione che persone poco simpatetiche possano leggere i miei stati d'animo, e non comprendere le sfumature di certe mie angoscie, di certe solitudini che vogliono restare tali, di certi scompensi emotivi che si traducono in reazioni quasi opposte.
Percio', faro' il possibile per dissimulare quel che e' giusto che resti soltanto mio.
Sono fermamente contrario all'esteriorizzazione. Credo che le cose belle siano belle perche' noi siamo capaci di cogliere e godere di questa bellezza. Ma qui si tratta di un rapporto personale, che non e' possibile condividere se non in una piccola misura.
Adesso, mi rendo conto pero' di aver travisato il discorso da cui ero partito. Non ricordo cosa volessi dire. Mi appresto adesso a bere un altro caffe', che stavolta e' il caffe' istantaneo. Qua a Malta un buon espresso e' difficile da trovare.
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