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martedì 6 dicembre 2016

Le cartografie poco funzionali e la fine del mondo

Nel post precedente non ho raccontato fino in fondo come si è svolta la mia visita al Museo Pecci, per la conferenza di Bauman. Mi son trovato davanti una fila incredibile, ho atteso pazientemente in coda, e a un certo punto è uscito qualcuno a dire che l'auditorium era ormai pieno zeppo di gente e non saremmo entrati. Così me ne son tornato a casa.
Tuttavia, pochi giorni dopo, ho avuto modo di trovare su YouTube la stessa conferenza tenuta quella sera da Bauman. L'ho ascoltata con interesse, mentre aspettavo che l'acqua bollisse per buttare la pasta, e ne ho tratto qualche riflessione.
Anzitutto, che significa oggi essere un filosofo? O un sociologo? Significa essere uno storyteller. Sotto questo aspetto, il professore ha il suo talento. Mi vien da pensare che probabilmente l'etichetta più larga e comprensiva di "intellettuale" significhi adesso nient'altro che storyteller. Forse però è sempre stato così. Me ne son reso conto quando l'oratore ha parlato dell'ottimismo degli illuministi, questi personaggi tanto valorizzati nella storiografia dei secoli a venire, che vedevano all'orizzonte un luminoso avvenire, e il progresso, questa cosa misteriosa che avrebbe migliorato tante cose tra cui le condizioni di vita dell'individuo e della società. Pure loro raccontavano delle storie, che entusiasmavano la gente, intere schiere sociali, generazioni e nazioni, che si costruivano così un'idea di cosa sarebbe stato il futuro. Non solo, certo. Le loro narrazioni interpretavano il passato, davano perciò una forma al passato e al presente, tracciavano una linea tra i puntini sparsi e ne stabilivano una direzione. Gli storytellers del Settecento facevano questo.
Veniamo a oggi.
La conferenza di Bauman inizia con la domanda che lui si pone: perché oggi soffriamo tanto l'incertezza, e abbiamo paura del futuro? La formulazione della risposta occupa i tre quarti d'ora della conferenza, tocca vari argomenti ma il nucleo è chiaro. L'uomo d'oggi soffre l'incertezza perché non ha più punti di riferimento validi e incontestabili.
Da qui, secondo Bauman, segue il pessimismo verso l'avvenire. La generazione dei "millennials", dice lui, spera di riuscire almeno a mantenere gli standard di vita dei genitori. "Abbiamo perso la capacità di credere che il futuro sarà migliore", dice. Ma non si parla solo del futuro. Il cono d'ombra che si punta verso il domani si estende fino al presente e al passato. "Il passato è immaginario esattamente come lo è il passato", dal momento che non essendo ancora nati quando i grossi eventi sono accaduti dobbiamo rifarci alle narrazioni d'altri.
Apro una parentesi. Il sociologo polacco è nato nel 1925. La sua formazione intellettuale si svolge in riferimento al marxismo. La sua carriera accademica del dopoguerra è nella Polonia comunista. I punti-chiave della sua vita sembrano ben definiti, e il culto del progresso è d'altra parte tanto presente nella cultura del suo tempo come nel suo background specifico. Per un uomo nato in quel tempo travagliato, con dei riferimenti ideologici tanto forti e una fiducia smisurata nel progresso, il presente non può che essere qualcosa di indecifrabile, e lo stesso futuro non può che apparire come un'oscura incognita. Ma, appunto, proprio perché i suoi punti di partenza e di riferimento sono stati quelli lì. E noi? Noi "millennials"? Noi non partiamo da posizioni simili.
Questa non è più l'epoca delle grandi narrazioni.
Alla domanda che angoscia l'oratore, "perché oggi abbiamo paura del futuro", io rispondo che non ho tanta paura quanta ne ha lui, per il semplice fatto che io nel regime di incertezza, di disillusione su ideologie, mito bugiardo del progresso eccetera, io ci sono nato e perciò ne sono vaccinato.
Bauman parla della natura, dalla biologia riprende il significato del verbo "assimilare" che ora si usa tanto per i migranti. Eppure, lo stesso atteggiamento verso il futuro è spiegabile ugualmente secondo principi naturali. Siamo abituati a vivere senza punti incrollabili.
La questione mi riporta alla memoria un recente laboratorio di lettura tenuto da Davide Longo a Camaiore. Il tema era il significato delle mappe, quelle cose necessarie per definire il nostro io, per definire le nostre aspirazioni, per dare un senso al nostro vivere e al nostro agire, e ovviamente per orientare le nostre azioni. Non si può fare a meno di una mappa. Anche in tempi come questi, che vengono definiti "postmoderni" più per convenzione che per altro, c'è bisogno di una mappa.
L'esempio principale è quello della mappa di Alessandro, il grande conquistatore, che avrebbe fatto un viaggio a dir poco incasinato, senza un senso apparente, solo perché la mappa di cui poteva disporre ai suoi tempi era una mappa molto diversa da quella che noi abbiamo oggi. Si tratta di un esempio concreto, ma la mappa ha un significato metaforico che comprende tanto altro. La lettura dei poemi omerici improntò lo spirito del conquistatore macedone e lo spinse ad andare in giro in cerca di gloria. Anche Omero era divenuto parte della sua mappa.
Quali sono i punti su cui oggi tracciamo le nostre mappe? Ognuno ha i suoi. Omero non è più attuale, e Marx nemmeno.
Andiamo dunque al nocciolo della questione, che è poi il punto di partenza. La conferenza di Bauman si intitolava La fine del mondo, e in realtà, come lui ha pure riconosciuto, il mondo non finirà domani, e neppure dopodomani. (Il tema della conferenza era, di fatto, la paura della fine del mondo).
Volendo esser più precisi, avrebbe dovuto scegliere il titolo: La fine di un mondo (oppure, la paura della fine di un mondo). Perché il mondo che è stato il suo non è certo lo stesso mondo dei "millennials". Le mappe dell'epoca definivano quel mondo secondo una propria fisionomia, che poco assomiglia a quella del nostro mondo. Non si può dire che la sua mappa fosse sbagliata e la nostra sia giusta, perché non si può dire che i nostri punti di riferimento siano migliori o più
sensati dei suoi nella sua epoca. Possiamo notare però che la sua mappa non permetta di capire il presente ed esprimere fiducia in un radioso avvenire, mentre la nostra ci permetta di vivere in questa condizione di scarsa empatia con la storia e quieta accettazione dell'incognite del futuro.
L'evoluzione della storia dell'uomo, come evoluzione della civiltà, procede per continua ridefinizione delle mappe dell'uomo, e cioè dell'io e della sua storia. Passata, presente e futura.
Un mondo finisce nel momento in cui cade in disuso o scompare la sua mappa.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA

mercoledì 16 novembre 2016

Liquide divagazioni su un matrimonio dalle ambigue premesse

Ero a Prato, qualche settimana fa, e per caso ho saputo che al Museo Pecci si teneva una conferenza dell'insigne sociologo Zygmunt Bauman. Mi è venuta la curiosità di andarlo a vedere, il vecchio, visto che ha una veneranda età, come si dice, e un'occasione simile avrebbe potuto non ripresentarsi. Tutto qui, solo per la curiosità di vedere il personaggio dal vivo: del suo pensiero mi importa il giusto, visto che la sua importanza è limitata all'invenzione di una metafora, quella della società solida (rappresentativa della modernità) e della società liquida (caratterizzata invece nella postmodernità). La metafora ha avuto successo, come sappiamo, tanto che il professore l'ha applicata un po' a tutto, scrivendoci libri che hanno scalato le classifiche grazie al potere immaginifico delle parole, esercitato soprattutto sulle masse di ignorantelli che non hanno letto Simmel, Weber, Mannheim e Ortega y Gasset (quelli importanti, insomma). Abbiamo perciò amore liquido, paura liquida, vita liquida e, ovviamente, modernità liquida.
Il titolo della conferenza al Pecci non era da meno, quanto a potere immaginifico: La fine del mondo.
Chi, tra i presenti, si attendeva una rivelazione o una premonizione di ciò che ci attende, tuttavia, è rimasto deluso. Perché l'anziano professore il binocolo non ce l'ha, o perlomeno ha lo stesso che abbiamo noi tutti.
Non mi soffermerei ora a parlare di Bauman, delle sue chiacchiere (dal momento che la sociologia speculativa è una scienza per modo di dire, di questo stiamo parlando: di chiacchiere) se non fosse per quanto ho appreso una settimana più tardi, durante il mio soggiorno a Roma.
Mi trovavo nella città eterna per seguire un laboratorio di sceneggiatura al CSC (il centro sperimentale di cinematografia). Una ragazza che partecipava con me a questo laboratorio mi ha rivelato che nel secondo episodio della serie I Medici (una serie prodotta da Rai Fiction), è accaduto qualcosa che pochissime persone avrebbero immaginato.
A quanto pare, assistiamo a una scena in cui Walder Frey propone a Robb Stark (che nella finzione medicea è in realtà Cosimo de' Medici), di sposare sua figlia, la Contessina de' Bardi.
Il popolo del web è esploso, inveendo contro la terribile invenzione. Probabilmente è ancora forte l'astio con cui i fedeli estimatori del Trono di spade ricordano il red wedding, l'evento in cui Robb Stark e i suoi cari sono stati massacrati. E ora, tali sentimenti sono rievocati in questo momento catartico, un deja-vu, che in realtà è qualcosa di più che un deja-vu.
Quel che importa, tuttavia, non è il momento in sé, ma l'effetto che voleva ottenere, che è stato l'origine delle scelte dei produttori della serie. Il popolo del web ha espresso la propria incredulità, il proprio sconcerto, pure l'indignazione, per quel che si è visto. Per alcuni sarà stato come infierire su una ferita ancora aperta.
E ora tutto sembra ripetersi: Robb Stark deve sposare la figlia di Walder Frey. Quel che c'è di diverso, oltre all'ambientazione, il contesto storico e i nomi dei personaggi, è che stavolta tutti sanno come andrà a finire. Tutti sanno che Robb sta commettendo un errore, e che di Walder Frey non c'è da fidarsi.
I grandi film, le grandi fiction, hanno il potere di sospendere la nostra incredulità. Una volta che ci siamo dentro, smettiamo temporaneamente di farci domande. Poco importa quanto sia realistico quel che vediamo. Quel che caratterizza l'offerta di matrimonio, qui, è il potere evocativo determinato dai due attori, che sono i soliti che abbiamo visto in una simile situazione, ma in altro contesto.
Possiamo ritenere che l'intercambiabilità dei contesti sia un connotato della postmodernità? Che le cornici che dovrebbero contenere le nostre visioni, le nostre emozioni, le nostre passioni, siano facilmente sostituibili, e addirittura se ne possa fare a meno? No, io credo di no. Credo che una cornice sia sempre necessaria. Perché la cornice serve ad articolare una storia. E' un elemento non trascurabile di qualunque narrazione. Serve a portarci all'interno della storia. Se non ci fosse, probabilmente non avremmo nemmero la percezione di seguire una storia raccontata.
Probabilmente il "C'era una volta" con cui le favole iniziano ha questa funzione, quella di condurci in un contesto estraneo alla realtà. Ripetere la scena in un altro contesto forse sminuisce la pretesa di sospendere l'incredulità dello spettatore. Quel che notiamo, alla fine di una lunga e incerta riflessione, è che ogni momento è potenzialmente catartico.
Tutto ciò è alquanto postmoderno, si è già detto. Eppure, c'è una cosa che si chiama immaginario, per il quale non è facile tracciare una mappa. Ciascuno ha i propri punti di riferimento, le proprie misure. Il mondo è multiforme, e dalle ventuno lettere dell'alfabeto sono fiorite parole di molteplici significati, innumerevoli linguaggi che cercano di abbracciare la vita e il mondo, ciascuno a modo proprio. Per quanto liquido possa essere l'immaginario, sembra che debbano esserci dei punti di riferimento solidi. Dopotutto, così è l'uomo. Forse è sempre stato così, anche nella notte dei tempi.
Forse siamo noi, oggi, nella notte dei tempi, in cui ci affidiamo a narrazioni che, senza nasconderlo, fanno della ripetizione il loro momento catartico per ragioni di marketing.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA

sabato 2 luglio 2016

Vera o falsa, la storia del vecchio e del nuovo passa da Malta

Se l'avessi saputo per tempo, che Ned Stark l'hanno decapitato da queste parti, probabilmente avrei vinto la mia insofferenza al caldo torrido, al sudore permanente, al sonno e alla scarsità di energie. Mi sarei armato di buoni propositi e sarei andato in giro, con la guida appositamente stampata nel taschino ( ecco qui: http://thefairytaletraveler.com/2015/05/03/game-of-thrones-filming-locations-in-malta/ ) e avrei visitato un po' tutto, facendo qualche migliaio di foto.
E invece, non ho fatto niente.
Detto questo, che come introduzione a una visita a Malta non è il massimo, vediamo di che altro si può parlare, quando si parla di Malta.
In  Malta è fiorita una civiltà diverse migliaia di anni fa, i cui albori si perdono, probabilmente, nella notte dei tempi. Vi sono tracce di questa remota  civilizzazione, e si tratta soprattutto delle catacombe enormi sparse nell'entroterra arido e giallo, e pure nei manufatti ritrovati da archeologi, che hanno senza difficoltà riconosciuto in questi la presenza di culti matriarcali praticati nell'isola.
Ma questo lo sapete già. Sono informazioni che si trovano dappertutto, nei libri e sul web. Perciò non vale la pena che spenda altre righe a parlarne.
L'esperienza più significativa che ho fatto, durante questa visita (non la mia prima volta a Malta), è stata senza dubbio la lettura del Gattopardo,  pure la visione del film di Luchino Visconti.
Non era il posto più adatto, ma dopotutto la Sicilia non è mica lontana.
E come si dice, tutto il mondo è paese. E siamo sempre al sud.
Gli arancini e i cannoli si trovano pure qui.
Ma non divaghiamo.
Allora, dicevo. Il romanzo mi ha preso, mi ha catturato, un po' per la fastosità dell'ambiente, che ha dell'esotico - come i critici stranieri hanno visto, giustamente, visto che sopratutto per costoro la realtà sociale e culturale descritta è un altro mondo, sia, sopratutto anzi, per la grandezza del protagonista che domina il romanzo, la storia, l'intera Sicilia del suo tempo storico-letterario.
Ho letto il Gattopardo in solitudine, sulla sassosa spiaggia di Sliema, nelle prime ore del mattino o durante la sera, prima del tramonto.
Erano i giorni in cui ho notato come la scellerata politica urbanistica, con le sue idee di modernizzazione, stia deturpando il paesaggio lungo la costa. Hanno demolito palazzi storici per fare spazio alla costruzione di resort turistici e grattacieli che ospiteranno hotel a cinque stelle. I luoghi più belli, più suggestivi dell'isola sono ormai del tutto obliterati dal turismo. I prezzi sono saliti e continuano a salire. La storia di Malta, il suo passato, è una miniera d'oro. I turisti apprezzano, spendono e investono.
Malta cresce, cambia forma. Si evolve, forse. O forse peggiora, come di solito accade a chi ragiona di progresso e fa le cose di fretta. In ciò, Malta è quanto mai lontana dall'isola grande, tanto esotica e tanto ricca, che le sta subito sopra.
Non cambierà niente - diceva il Principe di Salina al Cavalier di Monterzuolo, ripetendo qualcosa di già detto ai soldati inglesi. Non cambierà niente, perché noi siamo Dei.
C'è un solo peccato i siciliani non perdonano, dice ancora il Principe, e non è il fare male le cose. Soltanto il "fare" è già un peccato. Perché loro sono così, i siciliani. Vogliono dormire, e non tollerano di essere svegliati.
I maltesi, invece, fanno. Ma perché, uno si può chiedere, perché a Malta fanno? Sarà forse che ci sono stati gli Inglesi, che li hanno contagiati? Difficile stabilirlo.
Il post mi sta venendo più lungo del previsto, dunque cercherò di tirare le fila del discorso.
Donnafugata, La Valletta o King's Landing, questi sono posti così esotici da non potersi pensare in termini di geografia fisica, ma solo come luoghi letterari, o non-luoghi, o astrazioni di passioni arcane. Si trovano qui le pulsioni al rinnovamento, il conflitto oggi più mite, domani più aspro e dopodomani di nuovo mite o addirittura dimenticato, fra il passato di una civiltà estinta che neppure desidera esser ricordata, e il presente di una nuova civiltà, parente irriconoscibile della prima (forse non è proprio così nel caso della Sicilia), che vuole anticipare prepotentemente il futuro, avanzando a passi da gigante verso un traguardo quanto mai astratto e immaginifico, pure calpestando i residui di tutto quel che la vecchia storia (quella piccola) ha lasciato dietro di sé, le briciole che qualcuno potrebbe un giorno trovare e cercare di seguire.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Marzio Valdambrini

domenica 19 giugno 2016

Barcellona. C'è qualcosa là dietro

Qualcosa si nasconde dietro quelle fronde, quelle verdi fronde di alberi piantati a intervalli regolari, lungo tutto il Paseig de Gracìa.

Ci provo in vari modi a fare una foto decente, ma vuoi perché non ho una tecnica sopraffina, vuoi perché i promotori del turismo non hanno impedito che gli alberi fossero messi lì, a coprire le facciate dei palazzi di Gaudi, le foto sono deficitarie. Vabbé, qualcosa si intravede comunque.

Gaudi è quello delle architetture strane. Il suo modernismo è diverso dalle cose moderniste che stanno altrove. Pure a lui hanno appiccicato delle etichette, quando probabilmente la definizione del suo stile è: lo stile di Gaudi. Non mi fanno impazzire le facciate, però sembrano posti abitabili, luoghi in cui uno può sentirsi a casa. Ho pensato questo in relazione alle architetture fredde, rigide, brutte se non addirittura mostruose che ancora ci ostiniamo a considerare arte (non parlo delle costruzioni di edilizia popolare, ma di quegli orrori firmati da Renzo Piano, Fuksas, et simili). Le forme di Gaudi sono ancora a misura d'uomo. Il suo modernismo è ancora espressione di un'umanità. Quello che è venuto dopo, beh... Ma sì, torniamo a parlare di Barcellona, che sono ancora qui, in attesa dell'autobus per Tossa de Mar.
Il ristorante La Pedrera sta sempre sul Paseig de Gracìa e sembra il ristorante dei Flintstones (dall'esterno). Barcellona è una città che costa. Ho scoperto che il leche y leche che tanto mi incantava alle Canarie qui, nella penisola, non esiste. Gracìa è una bella zona, ma a prima vista può sembrare noiosa e povera di divertimenti.
La Plaça de la Virreina è nascosta ma vale la pena di scoprirla. Carrer de Bruniquer è lungo e c'è tanta roba. Sono finito allo Hostal d'Art, sede dell'associazione culturale Caja Fuerte, che organizza regolarmente serate di flamenco, salsa, e un po' di tutto. L'ente è stato messo su da un eccentrico calabrese, che ha portato nell'agenda una sana ventata di meridione italiano. Tutti i giovedì c'è la serata di salsa, con cinque euri ti fai la serata e c'è un mojito incluso (fra l'altro, è il mojito migliore che abbia trovato - e a me il mojito normalmente fa schifo). Passando per il carrer de Bruniquer di sera, una birra da Obama ci sta sempre. Su Traversia de Gracìa, parallela del carrer sopra detto, c'è il Calmado, posto giusto per un drink o per mangiare qualcosa di veloce e gustoso.
Andiamo fuori Gracìa e vediano cosa c'è.
Barcelloneta: spiagge brutte, cocktail costosi. Inoltre per sfiga ho beccato l'unico pomeriggio di vento e pioggia. Voto: 5
La Rambla: straripa di gente losca, di malaffare e sgualdrine che cercano di fermarti in mille modi. Per la prima volta in vita mia ho visto una ragazza, qui, che si è tirata giù i pantaloncini e le mutande, si è accovacciata e ha pisciato dietro un lampione. Voto: 3
Banco de Espana: il primo giorno l'ho trovato chiuso, perché è aperto fino alle 14h. Il secondo giorno ci sono andato per tempo, ho mostrato al cassiere le foto degli euri spagnoli che cerco per la mia collezione, e senza alcun'obiezione il gentiluomo catalano mi ha cambiato 150 euri in pezzi da 2 euri della  moneta celebrativa di Segovia. Voto: 150
Carrer de la Fusina: non saprei dire dove si trova, perché ci sono arrivato con l'autobus in stato di semi-incoscienza, ma è il posto migliore per mangiare qualcosa all'aperto, senza il casino d'intorno. Voto: 9.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA

martedì 14 giugno 2016

Porto, ti porto nel cuore

Ho lasciato questa città ieri notte.  Per chi si domandi di quale città sto parlando - sta scritto nel titolo, la ripetizione non era un refuso.
Sette giorni a Porto sono forse troppi per i viaggiatori distratti che si accontentano di scattare foto alle bellezze barocche ricoperte di azulejos, ma non lo sono affatto per chi ama immergersi nella profondità, nell'anima in questo caso passionale e focosa, calda e accogliente, di questa antiga, mui nobre, sempre leale e invicta citade do Porto, come per definizione storica.
Il mio arrivo però non mi ha fatto presagire nulla di ciò. Sono sbarcato di sera all'aeroporto, e la metro mi ha condotto fino a Bolhao. La Rua Santa Catarina mi ha portato dritto in Praca do Baralha, la fastosa cornice di un paese scivolato verso un inarrestabile declino. Alle undici di notte, in mezzo alla piazza c'è un'ente di onesti volontari che distribuisce i pasti ai poveri e ai barboni. Inoltre, il tratto fra Rua Santa Catarina e Praca do Baralha era pieno di sacchi dei rifiuti buttati lì, dove capitava, sui marciapiedi. In mezzo a spazzatura, barboni e figure derelitte d'ogni tipo ho pensato proprio che Porto non fosse altro che una versione meglio decorata di Bruxelles, una Bruxelles rivestita di azulejos. Nei giorni seguenti ho potuto rivedere e ampliare tale opinione, un po' grazie a una visita guidata e un po' muovendomi a caso per le stradine e i cunicoli. Non poteva esser solo quello, certo: la città deve in qualche modo render conto del suo pretenzioso titolo, città invicta, mui nobre etcetera.
La storia della città si scopre insieme alla storia stessa del Portogallo. Di questa ci ha parlato Pedro, la guida che ci ha portati in giro per un'intera mattina (il free guided walking tour che si prenota, dal sito www.portowalkers.pt, è very very recommended :) ).
La vecchia storia portoghese, nelle sue tappe significative, è raffigurata nei bei dipinti all'interno della stazione ferroviaria, e di fatto la scoperta della città non può che partire da lì.
La storia è pressappoco la seguente. (C'è un po' di vaghezza e scarsità di dettagli, ma questo è ciò che accade quando i post si scrivono a distanza di tempo dall'esperienza che si vuol raccontare). Insomma, dicevo, la storia è questa: c'era il re di Castiglia e Leon che lottava contro gli arabi, che all'epoca avevano occupato la penisola iberica. Il Pedro che è poi ricordato come primo re del Portogallo era un prode signore, che accolse con entusiasmo l'incentivo che gli fu offerto: fai piazza pulita, e la terra che ti riesce liberare è tua di diritto.  Rifacendosi da nord, l'implacabile conquistatore arrivò fino in fondo alla penisola, e con ciò si definirono i confini del Portogallo - che sono rimasti gli stessi fino ad oggi. Il paese ha prosperato nei secoli grazie alle velleità marittime dei suoi governatori. Il re (Enrico?) il Navigatore sarebbe andato un po' ovunque, ma purtroppo in Canada ci arrivò in inverno, qui trovò il ghiaccio, e la paura di esser arrivato ai confini del mondo, col conseguente rischio di cadere fuori dalla terra piatta, lo fece tornare indietro. Ci sono stati poi dei problemi coi francesi, che li hanno invasi. Rapporti migliori con gli inglesi, che li hanno omaggiati con le cabine telefoniche rosse (ora inutili, ma ci sono). La modernizzazione del paese passa attraverso una lunga serie di scontri con la Chiesa: la stessa stazione dei treni fu costruita dove sorgeva un convento, e per non dover buttar fuori le monache si dovette attendere che l'ultima morisse di vecchiaia. Sulla francesinha probabilmente scriverò un post apposta (come suona bene, mi piacciono le allitterazioni).
"How do you recognize a portuguese?" ci ha chiesto la guida. E pure ci ha dato la risposta. "From the moustache. Regardless of the gender".
Eppure gli aneddoti non bastano a spiegare Porto. La metafisica di questa città è probabilmente la stessa metafisica di Lisbona, il loro comun denominatore è l'essere su continui dislivelli, le strade salgono e scendono ma mai restano piane, garantendo una presenza impressionante di scorci d'ampia visuale, scenari per foto da turista o da semplice esteta di città. Non ci si annoia, ma ci si può stancare. Le donne non portano i tacchi, è impossibile a Porto come a Lisbona. La sua metafisica, forse la sua essenza, sta in una sintesi fra il suo heideggeriano essere-per-il mondo-in-costante-degrado, la saudade del suo popolo (che, credo, sia un ibrido senso di insoddisfazione esistenziale conseguente alla percezione del sé caduco di fronte al fluire costante del tempo e della grande storia, di uggia per il caldo, e del rimpianto di un amor perduto col conseguente lamento che è ritualizzato nel fado, impetrando ed elevando lo stesso sentimento di saudade a livello popolare e nazionale, fino a farne la forma più viva della sua umanità. Il fado celebra il destino delle sofferenze di quest'anima focosa e soffocata, e l'ascolto del canto di Amalia Rodrigues vale più di ogni argomentazione.
O Fado nasceu um dia,
quando o vento mal bulia
e o cu o mar prolongava,
na amurada dum veleiro,
no peito dum marinheiro
que, estando triste, cantava...


Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA