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venerdì 8 maggio 2020

Ecco qua. Dopo un tempo lungo, che non saprei neppure quantificare col solo supporto della memoria, mi rimetto a scrivere. Non ho molto da dire. Sono chiuso in casa, come tutti, ma ho la fortuna di avere il frigo pieno. Ho preso le bistecche di maiale, che erano in offerta speciale. Ho pure lo strudel. Ma non vorrei parlare di questo. Non posso scrivere un post semplicemente assecondando un flusso di coscienza. E allora di cosa parlare? Mi oriento verso qualche tema generale di ampio respiro, quelle cose che non passano mai di moda.

Il mondo sta cambiando. Ecco, questo è un inizio promettente.

Pura la nostra vita - una volta che la pandemia sarà un ricordo - non sarà più la stessa.
Cambierà probabilmente il nostro modo di percepire le relazioni umane, di familiarizzare con gli sconosciuti, di interagire col mondo. Cambierà probabilmente la nostra percezione della libertà.
O forse no.
Forse non cambierà niente. Torneremo a fare quel che abbiamo fatto finora.

L'argomento direi che è concluso. Con gli anni sono diventato piu' pragmatico, mi perdo meno nei ragionamenti astratti.
Ah ecco, ora mi è venuto in mente: qualcosa di cui scrivere è saltato fuori. Oggi ho pubblicato su YouTube la versione definitiva del cortometraggio "An idea for the future", che ho realizzato alla fine di Febbraio 2020, a Tallaght (in Irlanda). Gli imprevisti incontrati nel processo di produzione purtroppo hanno determinato il risultato qualitativo del cortometraggio, che è quel che è.
La post-produzione, tirata fin troppo per le lunghe, non può fare miracoli. Avevo inizialmente pensato a ri-filmare alcune parti, facilmente migliorabili anche non in presenza di alcun attore (ma eventualmente lo so che i 4 attori coinvolti sarebbero disponibili a rifare quel che va rifatto) ma poi ho lasciato perdere. Ci sono un paio di errori tecnici che non sono aggiustabili facilmente. Uno scavalcamento di campo in una scena in cui, purtroppo, la location e la quantità di attori tutti insieme non permette di metterci una toppa e via. Ho deciso perciò di tirare un po' via, prendere quel che c'è, e voltare pagina. Mi dedico ora ai prossimi progetti. 
Riprendo a scrivere un romanzo. Attendo di rimettere mano a una vecchia sceneggiatura, appena lo story editor canadese mi manda la sua scheda di analisi. Le giornate passano, insomma. Non sprofondo nell'apatia e nel torpore, che normalmente mi spinge in depressione.
Domani qualcosa salterà fuori. Cerchiamo di approfittare del momento, anche se sembra ci sia poco da fare. Qualcosa lo si trova sempre, da fare.


martedì 3 luglio 2018

Un post per rilanciare la mia carriera di Content Writer?

Sono di nuovo al punto di partenza. Mando CV e applications, ma nessuno, tranne i sourcing recruiters di customer service, mi degna di considerazione. Che fare?
Permane il dubbio di non aver insistito a sufficienza nell'attività di blogger. Di non aver cercato, cioè, di presentarmi ai recruiters con l'unica, misera, attività che potesse fungere da trademark di una qualche attività rilevante creativa per il job di copywriter o content writer per i quali mi ostino ancora a candidarmi.
Finito questo preambolo, cerco ora di concentrarmi, di mettere a fuoco dunque l'esperienza della settimana conclusa, con gli incontri piacevoli, le pause di riflessione, le pause per il caffé senza riflessione, le pause in cui ho cercato di tirare le fila di qualcosa, che poi alla fine era inconcludente.
Sono arrivato ieri sera a Cipro, ho preso l'autobus per Limassol (che poi, non so nemmeno io perché sono venuto qui. Sì, in larga misura ho decio di venir qui perché c'era il volo RyanAir dal prezzo invitante, ma non era soltanto quella la motivazione) e verso le dieci ero in quest'ostello, il Papa Bongo Hostel, che non può propriamente dirsi un bel posto.
In pratica, è uno stanzone. Si entra, e si è subito nella camerata coi letti a castello. Non c'è reception. Se c'è, è qui, quando le due ragazze dello staff si fanno vive. L'ostello si affaccia su un viale trafficato, manca l'aria condizionata, perciò la notte l'ho passata perlopiù sveglio, per il casino delle macchine che passano giù.
Ero uscito per vedere la movida, ma ho trovato la stessa vita sociale godereccia che c'è il lunedì sera a Limerick. Qualche bar, qua e là, le televisioni accese sulla partita Colombia - Inghilterra.
Ora c'è la Fox che ha pubblicato un paio di job offers... sono interns, a dire il vero. Che fare? A 37 anni mi candido per una internship ? Mah. Decisioni difficili.
Il caffé l'ho già preso. Solubile, nescafé. Fumato una sigaretta in terrazza.
Le decisioni difficili non mi spaventano, tranne quando devo mettere in atto un trasferimento. Almeno, questo, sarebbe vicino. A Roma.
Sono le otto, è l'ora di uscire, vedere questa città in cui mi trattengo per due giorni risicati. Ma prima devo sistemare il CV. E finire di scrivere questo post.
Sono multitasking, riesco a pensare a tante cose contemporaneamente. Adesso metto la parola Fine al post, lo pubblico, dò una rileccata al CV e lo mando.
Con l'internship ci provo. Non è mai troppo tardi per trovare la propria strada. Anzi: per cercare di incastrarsi in quella che si spera che sia la propria strada.
© Marzio Valdambrini


sabato 30 settembre 2017

Tradurre qualcosa di cui non c'è bisogno

Non ho fatto mistero di voler affrontare temi che lasciano il tempo che trovano, in questo blog. Non mi voglio impegnare in argomenti per i quali valga la pena perderci del tempo. Non afferrerò mai i profondi misteri della Search Engine Optimization, e credo resterà un rebus irresolubile la dinamica che porta Google a piazzarmi una pubblicità alle visite guidate della Dalmazia nel mio blog. (Certo, meglio comunque questo che i banner sulle protesi dentali che una volta mi son trovato sul lato destro del blog, argomento per nulla riconducibile alle cose belle di cui si vuol trattare).
Sono adesso seduto in poltrona, e fra le varie cose che mi passano per la testa, c'è pure il film della Coppola, "Lost in translation".
E' un periodo difficile, si capisce. L'estate. C'è l'afa, il caldo. La solitudine. L'amore che proietta un'ombra sinistra su tutto quel che gli va dietro - salvo poi scoprire che l'amore è a sua volta è un'ombra. Il lavoro che non c'è. Gli amici scomparsi. Necessità di certezze su cui poggiarsi, come delle ciabatte per muoversi comodamente.
[trascorrono quasi 2 mesi, fino al giorno in cui recupero la bozza di questo post, finora non pubblicato, e decido di portarlo avanti]
Dunque, sorpresa! Mi ritrovo ora seduto sulla poltrona a conchiglia del Van Gogh Hostel di Bruxelles. Qualcuno ha
dimenticato un pacco di fusilli nella cucina dell'ostello, stanno ora quasi per bollire. Sono di passaggio, ora a Bruxelles, e da qui mi muoverò domani per Amsterdam. Destinazione Catawiki. Vado a dare un'occhiata, mica nulla di serio, per ora. Anziché domandarsi se un lavoro ad Amsterdam corrisponda alle mie esigenze del momento, ho deciso di muovermi per trovarci sul posto le risposte. Il film "Even the lovers get the blues", che ho visto ieri sera al cinema della galleria vicino alla Grand Place, mi è piaciuto molto e mi ha trasmesso riflessioni profonde. Il regista ha fatto un ottimo lavoro, sia sul piano tecnico, che sul piano del racconto della storia, che non cade mai nella banalità, e soprattutto nella volgarità e nel gratuito cinismo a cui simil storia si prestava. Molto raffinato, direi che è il miglior film belga che ho visto finora. Mi sta ispirando per scrivere qualcosa di nuovo, che affronti un tema simile, ma nel diverso contesto italiano.
Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA
 



mercoledì 28 giugno 2017

Post concettuale

E se non fosse un virus?  

Questa è la domanda che mi ha spinto a esaminare con occhio più analitico la cartella dei messaggi pervenuti da sconosciuti. Messaggio arrivato con allegato file FDX. Google mi dice che non è un malware, in effetti. Si tratta di un testo prodotto da Final Draft.
A dire il vero, non so cosa scrivere ora per andare avanti con questo post. Avevo pensato di scrivere qualcosa, me l'ero sentito, ce l'avevo dentro. Avevo trovato la determinazione, quella cosa che in genere mi viene nei momenti inappropriati, quando nulla può uscir fuo. E invece ora mi trovo qui, davanti allo schermo, a guardare la finestra bianca e vuota del blog.
Trovare l'impulso è il segreto. Si cerca, e si trova in tanti modi.
Gli scrittori soffrono il blocco della pagina bianca. Per me le pagine possono essere bianche, ma non vuote. Una pagina non è mai vuota. Vedo un foglio e subito mi viene in mente qualcosa che lo può arricchire. Ci fai dei ghirigori, sui fogli. Un frego, una riga. Un asterisco, una pallina. Ci fai tante cose, e ogni cosa parla di un diverso alfabeto. Di un mondo, di un momento della tua vita con la sua storia e le sue idiosincrasie.
In una pagina vuota ci puoi mettere il vuoto. Facendolo sembrare qualcos'altro, ma che evochi il vuoto. L'infinito, che forse è vuoto. E' una parola o un concetto? Anche i concetti sono parole. Con o senza didascalie.
Per vincere il blocco della pagina bianca uno scrittore si siede, al suo posto di lavoro. Davanti alla scrivania. O a un tavolo. O anche al comodino, o sulla tazza del cesso. Insomma, l'importante è sedersi. E tutto inizia da lì.
Anche i blogger soffrono di un problema simile. Però il caso del blogger è diverso. Si tratta sempre di riempire, sì. Ma il ragionamento segue un'altra logica. Quando scrivo il post, io non penso solo a raccontare qualcosa. Penso che tu poi ci devi cliccare. Che devi leggere fino in fondo. Che magari dovresti condividere il post. Perché altrimenti non serve a niente. Insomma, interviene il marketing. Ma ecco, fermiamoci un attimo.
Sono passati dodici minuti da quando ho pensato, erroneamente, di poter scrivere un post sul file FDX che una giovane sceneggiatrice americana mi ha inviato, e ora mi si accende una lampadina.
E' arrivata l'ispirazione.
Bologna. Sala Borsa, in Piazza Maggiore. C'erano dei poster di un film con Brigitte Bardot. Tié! Ci infilo qui una foto, e risolvo il discorso del post.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA



venerdì 23 giugno 2017

Un altro post sul Destino partendo dal fondo

Cologno Monzese. Mi sveglio e sono su una brandina. 

Non so perché, ma qualcosa, al risveglio, mi ha fatto ricordare che avevo (e ho ancora) un blog. Del quale mi ero pressoché dimenticato. Ci entro, fatico a ricordare la password, e puf ! alla fine, eccomi qui.
Noto che l'ultimo post è datato dicembre 2016. Dio, il tempo è volato. Che ho fatto in questi mesi? Mi sono sbattuto per il cortometraggio, che è pressoché finito ma sembra non voler finire. Ho intrapreso l'avventura dal molto incerto esito nel mondo della sceneggiatura televisiva (avventura che, per ora, è ferma alla definizione dei preliminari con cui si pensa di partire). Sono tornato a Odessa (quarta o quinta volta), per una breve durata, che mi ha messo davanti ad alcune imprescindibili verità: l'uomo ama. L'uomo vive di amore, non solo di progetti per il futuro.
E ora, che aspetto di fare il doppiaggio di una scena del mio cortometraggio (e questo è il vero e unico motivo per cui sono finito ora a Cologno Monzese) sto davanti allo schermo piccolo e un po' sudicio del netbook, davanti al blog, e penso: che ci scrivo di nuovo?
Di nuovo  non ho mica nulla. Finiamo qui allora. Sono le 9,50. L'ora di riprendere in mano la propria vita, di riassumerne le redini, come un'auriga stoico dell'antica Grecia che decide di sovvertire il rapporto col Fato, senza però subirne le conseguenze. No, no, questo è troppo. Mi limito a guardare siti internet che parlano di cose insulse, simpatiche cazzate, in attesa di fare il doppiaggio.
Per gli appuntamenti importanti e per i ritardi con gli appuntamenti importanti c'è sempre tempo.
Una foto, qui, oggi non ce la metto.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA

martedì 6 dicembre 2016

Le cartografie poco funzionali e la fine del mondo

Nel post precedente non ho raccontato fino in fondo come si è svolta la mia visita al Museo Pecci, per la conferenza di Bauman. Mi son trovato davanti una fila incredibile, ho atteso pazientemente in coda, e a un certo punto è uscito qualcuno a dire che l'auditorium era ormai pieno zeppo di gente e non saremmo entrati. Così me ne son tornato a casa.
Tuttavia, pochi giorni dopo, ho avuto modo di trovare su YouTube la stessa conferenza tenuta quella sera da Bauman. L'ho ascoltata con interesse, mentre aspettavo che l'acqua bollisse per buttare la pasta, e ne ho tratto qualche riflessione.
Anzitutto, che significa oggi essere un filosofo? O un sociologo? Significa essere uno storyteller. Sotto questo aspetto, il professore ha il suo talento. Mi vien da pensare che probabilmente l'etichetta più larga e comprensiva di "intellettuale" significhi adesso nient'altro che storyteller. Forse però è sempre stato così. Me ne son reso conto quando l'oratore ha parlato dell'ottimismo degli illuministi, questi personaggi tanto valorizzati nella storiografia dei secoli a venire, che vedevano all'orizzonte un luminoso avvenire, e il progresso, questa cosa misteriosa che avrebbe migliorato tante cose tra cui le condizioni di vita dell'individuo e della società. Pure loro raccontavano delle storie, che entusiasmavano la gente, intere schiere sociali, generazioni e nazioni, che si costruivano così un'idea di cosa sarebbe stato il futuro. Non solo, certo. Le loro narrazioni interpretavano il passato, davano perciò una forma al passato e al presente, tracciavano una linea tra i puntini sparsi e ne stabilivano una direzione. Gli storytellers del Settecento facevano questo.
Veniamo a oggi.
La conferenza di Bauman inizia con la domanda che lui si pone: perché oggi soffriamo tanto l'incertezza, e abbiamo paura del futuro? La formulazione della risposta occupa i tre quarti d'ora della conferenza, tocca vari argomenti ma il nucleo è chiaro. L'uomo d'oggi soffre l'incertezza perché non ha più punti di riferimento validi e incontestabili.
Da qui, secondo Bauman, segue il pessimismo verso l'avvenire. La generazione dei "millennials", dice lui, spera di riuscire almeno a mantenere gli standard di vita dei genitori. "Abbiamo perso la capacità di credere che il futuro sarà migliore", dice. Ma non si parla solo del futuro. Il cono d'ombra che si punta verso il domani si estende fino al presente e al passato. "Il passato è immaginario esattamente come lo è il passato", dal momento che non essendo ancora nati quando i grossi eventi sono accaduti dobbiamo rifarci alle narrazioni d'altri.
Apro una parentesi. Il sociologo polacco è nato nel 1925. La sua formazione intellettuale si svolge in riferimento al marxismo. La sua carriera accademica del dopoguerra è nella Polonia comunista. I punti-chiave della sua vita sembrano ben definiti, e il culto del progresso è d'altra parte tanto presente nella cultura del suo tempo come nel suo background specifico. Per un uomo nato in quel tempo travagliato, con dei riferimenti ideologici tanto forti e una fiducia smisurata nel progresso, il presente non può che essere qualcosa di indecifrabile, e lo stesso futuro non può che apparire come un'oscura incognita. Ma, appunto, proprio perché i suoi punti di partenza e di riferimento sono stati quelli lì. E noi? Noi "millennials"? Noi non partiamo da posizioni simili.
Questa non è più l'epoca delle grandi narrazioni.
Alla domanda che angoscia l'oratore, "perché oggi abbiamo paura del futuro", io rispondo che non ho tanta paura quanta ne ha lui, per il semplice fatto che io nel regime di incertezza, di disillusione su ideologie, mito bugiardo del progresso eccetera, io ci sono nato e perciò ne sono vaccinato.
Bauman parla della natura, dalla biologia riprende il significato del verbo "assimilare" che ora si usa tanto per i migranti. Eppure, lo stesso atteggiamento verso il futuro è spiegabile ugualmente secondo principi naturali. Siamo abituati a vivere senza punti incrollabili.
La questione mi riporta alla memoria un recente laboratorio di lettura tenuto da Davide Longo a Camaiore. Il tema era il significato delle mappe, quelle cose necessarie per definire il nostro io, per definire le nostre aspirazioni, per dare un senso al nostro vivere e al nostro agire, e ovviamente per orientare le nostre azioni. Non si può fare a meno di una mappa. Anche in tempi come questi, che vengono definiti "postmoderni" più per convenzione che per altro, c'è bisogno di una mappa.
L'esempio principale è quello della mappa di Alessandro, il grande conquistatore, che avrebbe fatto un viaggio a dir poco incasinato, senza un senso apparente, solo perché la mappa di cui poteva disporre ai suoi tempi era una mappa molto diversa da quella che noi abbiamo oggi. Si tratta di un esempio concreto, ma la mappa ha un significato metaforico che comprende tanto altro. La lettura dei poemi omerici improntò lo spirito del conquistatore macedone e lo spinse ad andare in giro in cerca di gloria. Anche Omero era divenuto parte della sua mappa.
Quali sono i punti su cui oggi tracciamo le nostre mappe? Ognuno ha i suoi. Omero non è più attuale, e Marx nemmeno.
Andiamo dunque al nocciolo della questione, che è poi il punto di partenza. La conferenza di Bauman si intitolava La fine del mondo, e in realtà, come lui ha pure riconosciuto, il mondo non finirà domani, e neppure dopodomani. (Il tema della conferenza era, di fatto, la paura della fine del mondo).
Volendo esser più precisi, avrebbe dovuto scegliere il titolo: La fine di un mondo (oppure, la paura della fine di un mondo). Perché il mondo che è stato il suo non è certo lo stesso mondo dei "millennials". Le mappe dell'epoca definivano quel mondo secondo una propria fisionomia, che poco assomiglia a quella del nostro mondo. Non si può dire che la sua mappa fosse sbagliata e la nostra sia giusta, perché non si può dire che i nostri punti di riferimento siano migliori o più
sensati dei suoi nella sua epoca. Possiamo notare però che la sua mappa non permetta di capire il presente ed esprimere fiducia in un radioso avvenire, mentre la nostra ci permetta di vivere in questa condizione di scarsa empatia con la storia e quieta accettazione dell'incognite del futuro.
L'evoluzione della storia dell'uomo, come evoluzione della civiltà, procede per continua ridefinizione delle mappe dell'uomo, e cioè dell'io e della sua storia. Passata, presente e futura.
Un mondo finisce nel momento in cui cade in disuso o scompare la sua mappa.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA

mercoledì 16 novembre 2016

Liquide divagazioni su un matrimonio dalle ambigue premesse

Ero a Prato, qualche settimana fa, e per caso ho saputo che al Museo Pecci si teneva una conferenza dell'insigne sociologo Zygmunt Bauman. Mi è venuta la curiosità di andarlo a vedere, il vecchio, visto che ha una veneranda età, come si dice, e un'occasione simile avrebbe potuto non ripresentarsi. Tutto qui, solo per la curiosità di vedere il personaggio dal vivo: del suo pensiero mi importa il giusto, visto che la sua importanza è limitata all'invenzione di una metafora, quella della società solida (rappresentativa della modernità) e della società liquida (caratterizzata invece nella postmodernità). La metafora ha avuto successo, come sappiamo, tanto che il professore l'ha applicata un po' a tutto, scrivendoci libri che hanno scalato le classifiche grazie al potere immaginifico delle parole, esercitato soprattutto sulle masse di ignorantelli che non hanno letto Simmel, Weber, Mannheim e Ortega y Gasset (quelli importanti, insomma). Abbiamo perciò amore liquido, paura liquida, vita liquida e, ovviamente, modernità liquida.
Il titolo della conferenza al Pecci non era da meno, quanto a potere immaginifico: La fine del mondo.
Chi, tra i presenti, si attendeva una rivelazione o una premonizione di ciò che ci attende, tuttavia, è rimasto deluso. Perché l'anziano professore il binocolo non ce l'ha, o perlomeno ha lo stesso che abbiamo noi tutti.
Non mi soffermerei ora a parlare di Bauman, delle sue chiacchiere (dal momento che la sociologia speculativa è una scienza per modo di dire, di questo stiamo parlando: di chiacchiere) se non fosse per quanto ho appreso una settimana più tardi, durante il mio soggiorno a Roma.
Mi trovavo nella città eterna per seguire un laboratorio di sceneggiatura al CSC (il centro sperimentale di cinematografia). Una ragazza che partecipava con me a questo laboratorio mi ha rivelato che nel secondo episodio della serie I Medici (una serie prodotta da Rai Fiction), è accaduto qualcosa che pochissime persone avrebbero immaginato.
A quanto pare, assistiamo a una scena in cui Walder Frey propone a Robb Stark (che nella finzione medicea è in realtà Cosimo de' Medici), di sposare sua figlia, la Contessina de' Bardi.
Il popolo del web è esploso, inveendo contro la terribile invenzione. Probabilmente è ancora forte l'astio con cui i fedeli estimatori del Trono di spade ricordano il red wedding, l'evento in cui Robb Stark e i suoi cari sono stati massacrati. E ora, tali sentimenti sono rievocati in questo momento catartico, un deja-vu, che in realtà è qualcosa di più che un deja-vu.
Quel che importa, tuttavia, non è il momento in sé, ma l'effetto che voleva ottenere, che è stato l'origine delle scelte dei produttori della serie. Il popolo del web ha espresso la propria incredulità, il proprio sconcerto, pure l'indignazione, per quel che si è visto. Per alcuni sarà stato come infierire su una ferita ancora aperta.
E ora tutto sembra ripetersi: Robb Stark deve sposare la figlia di Walder Frey. Quel che c'è di diverso, oltre all'ambientazione, il contesto storico e i nomi dei personaggi, è che stavolta tutti sanno come andrà a finire. Tutti sanno che Robb sta commettendo un errore, e che di Walder Frey non c'è da fidarsi.
I grandi film, le grandi fiction, hanno il potere di sospendere la nostra incredulità. Una volta che ci siamo dentro, smettiamo temporaneamente di farci domande. Poco importa quanto sia realistico quel che vediamo. Quel che caratterizza l'offerta di matrimonio, qui, è il potere evocativo determinato dai due attori, che sono i soliti che abbiamo visto in una simile situazione, ma in altro contesto.
Possiamo ritenere che l'intercambiabilità dei contesti sia un connotato della postmodernità? Che le cornici che dovrebbero contenere le nostre visioni, le nostre emozioni, le nostre passioni, siano facilmente sostituibili, e addirittura se ne possa fare a meno? No, io credo di no. Credo che una cornice sia sempre necessaria. Perché la cornice serve ad articolare una storia. E' un elemento non trascurabile di qualunque narrazione. Serve a portarci all'interno della storia. Se non ci fosse, probabilmente non avremmo nemmero la percezione di seguire una storia raccontata.
Probabilmente il "C'era una volta" con cui le favole iniziano ha questa funzione, quella di condurci in un contesto estraneo alla realtà. Ripetere la scena in un altro contesto forse sminuisce la pretesa di sospendere l'incredulità dello spettatore. Quel che notiamo, alla fine di una lunga e incerta riflessione, è che ogni momento è potenzialmente catartico.
Tutto ciò è alquanto postmoderno, si è già detto. Eppure, c'è una cosa che si chiama immaginario, per il quale non è facile tracciare una mappa. Ciascuno ha i propri punti di riferimento, le proprie misure. Il mondo è multiforme, e dalle ventuno lettere dell'alfabeto sono fiorite parole di molteplici significati, innumerevoli linguaggi che cercano di abbracciare la vita e il mondo, ciascuno a modo proprio. Per quanto liquido possa essere l'immaginario, sembra che debbano esserci dei punti di riferimento solidi. Dopotutto, così è l'uomo. Forse è sempre stato così, anche nella notte dei tempi.
Forse siamo noi, oggi, nella notte dei tempi, in cui ci affidiamo a narrazioni che, senza nasconderlo, fanno della ripetizione il loro momento catartico per ragioni di marketing.

Marzio Valdambrini © RIPRODUZIONE RISERVATA