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mercoledì 27 ottobre 2010

Rivolgimento d'attenzione su me stesso, quando l'umore cambia (in seguito alla costatazione che senza una raccomandazione non si va da nessuna parte).

Nell'ultimo post ho tematizzato un pensiero correlato al mio prossimo, breve, viaggio a Mosca.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più  o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il Cremlino è là che mi aspetta

Mi trovo adesso nella vasta e lussuosa hall di un resort turistico, piuttosto vicino a casa mia. Ho scoperto che posso connettermi a internet da qua, risparmiando dunque la benzina per arrivare a Pisa o a Livorno. Davanti a me ho ore spensierate per mettervi al corrente di quel che l'autunno porta nei luoghi di mare; metafore d'incertezza, dubbi pleonastici sul domani che convalida lo ieri, freddate dovute a un abbigliamento esistenziale inadeguato, e poi cozze senza perla, livree d'argento, parole sconclusionate, discorsi ovvi.
Sto parlando in chat con Fernanda, che è stata a Mosca poco tempo fa. Mi suggerisce alcune destinazioni che dovrei includere nel mio vagare. Ma il tempo è poco: solo una settimana mi tratterrò in quella terra fredda che vanta una tradizione tanto lontana dal nostro Occidente. Intanto, il freddo è arrivato fin qui.
Mi viene da pensare che forse lo stesso freddo che sento in questa hall, vicino casa e vicino alla spiaggia tirrenica, sia una presentificazione (termine di cui i fenomenologi tedeschi hanno abusato, usandolo nella loro lingua fin troppo tecnicistica) del freddo russo, in cui presto verrò a trovarmi.
Vi è certamente una spiegazione scientifica, che i potenti strumenti modernissimi di rilevazione meteorologica possono fornire... Ma noi, che siamo eredi di una tradizione stilnovista, eredi di Dante e di Boccaccio, del Petrarca e dell'Ariosto, di una tradizione insomma che non ha nulla a che spartire col razionalismo europeo e con le sue escrescenze giacobine che nulla hanno dimostrato se non le inevitabili derivazioni violentemente irrazionali del culto della ragione, ecco, noi dobbiamo rifiutare tale scientismo che nega la poesia, e riaffermare le metafore potenti che danno un significato più profondo alle stagioni, come pure alle trasformazioni che osserviamo e percepiamo in natura, ai colori che si sfumano, al freddo e al caldo.
Che altro dire con ciò? Il tempo mi ricorda che i cinque euri che ho pagato erano relativi solo a tre ore di connessione internet. Il tempo, come è dunque evidente, rinvia a un medio che offre di sé una nuova interpretazione di rimando.
Il tempo: forse una metafora per circoscriverlo non c'è. Ma qui si parla d'altro, e cioé di quest'esperienza russa che m'attende, che in qualche maniera segna un limite, un punto di confine, e forse la conclusione del viaggio esistenziale che ho iniziato ormai molto tempo fa - già molto prima, probabilmente, del mio controverso soggiorno maltese.
Dietro alle banalità ci stanno cose che meritano la nostra attenzione, forse più di quanto noi ci si renda conto. Io credo fermamente che dietro all'asserzione "non esistono più le mezze stagioni" si celi un significato che si è perduto in età remote, forse per colpa di una retorica volgare e indegnamente filologica.
Questo discorso, che erroneamente mi svia al di fuori dell'orbita russa, è pur sempre pertinente al tema del blog, ossia la fenomenologia delle cose belle, che sono pur sempre belle perché significative.
Ma sul tema del limite prima o poi dovrò svolgere un'indagine approfondita, perché la sua ricchezza di sfumature non può certo esaurirsi in una pagina.

Marzio Valdambrini

giovedì 7 ottobre 2010

Il presente è ancora qui

Le contingenze della vita (e pure le necessità, a dire il vero, nel caso si riescano mai a distinguere dalle prime) mi hanno impedito di scrivere posts sul blog per un bel lasso di tempo. In sostanza, non è che siano accadute cose significative... Nulla insomma che meriti un aggiornamento qui della mia situazione esistenziale. Vorrei dunque cogliere l'occasione (prima che la biblioteca dei Bottini dell'Olio chiuda) per congiungere due momenti diversi, che sono intercorsi a breve distanza di tempo l'uno dall'altro. Nello specifico, si tratta di un pensiero che m'è comparso ieri sera e un altro, ch'è fatto di immagini e sensazioni e non di parole, che ho vissuto una quarantina di minuti fa.
L'altra sera stavo tornando a casa, e mi è gorgogliato in testa un discorso che sentii dire da qualcuno. Non so bene se si tratta delle parole del maestro Gurdjeff, secondo il quale la morte per l'uomo civile rappresenta un grande enigma, ed è incomprensibile nella stessa e identica misura in cui la vita è incomprensibile. Si tratta sempre della difficoltà di dare un senso alle cose. Attraverso la concentrazione, e la focalizzazione dell'attenzione sulla fiamma di una candela sono riuscito a togliermi l'affanno di tanti pensieri estranei; purtroppo, devo dire che riguardo all'auto-osservazione sono ancora troppo deficitario. Capisco i miei difetti, ma non riesco a intervenire con efficacia (e forse con sufficiente decisione) per porci rimedio. Ma il lavoro che faccio su di me, almeno, mi porta come risultato il trovare risposta a certi interrogativi. Adesso non posso ancora dare una risposta a ogni domanda, non sono capace di dare il senso a tutto, ma certo posso dare il senso e comprendere il significato di esperienze e cose che un tempo vivevo e accettavo passivamente, senza ragionarci sensibilmente e perciò senza neppure riconoscerne il senso.
Il secondo momento che vi collego diacronicamente è quello sperimentato oggi pomeriggio, passate le 18, quando sono uscito di casa per venire a Livorno. C'era un cielo limpido, con un sole radioso che faceva sembrare questo giorno come un pomeriggio d'estate. Venendo fin qua in motorino ho sentito l'aria fresca, la brezza che arriva da qualche parte e che solleva il salmastro della marina. Lasciato il motorino vicino alla Bodeguita, il giorno era talmente bello che ho deciso di fermarmi in un bar, per prendere un budino di riso (c'era scritto che era al semolino, ma a me sembrava fosse riso). Senza affannarmi per il domani, l'oggi e lo ieri, e con tutte le preoccupazioni che questi momenti effimeri si portano dietro (perché si tratta realmente di momenti effimeri: siamo inseriti in un flusso di novità continua, che non possiamo fermare e che giustamente non si lascia interrompere) ho gustato dunque quel budino, dopodiché ho ordinato un cappuccino bello schiumoso. Ho sfogliato il quotidiano, e ho provato ribrezzo per un fatto di cronaca particolarmente cruento. Senza farmene carico, sono uscito e ho rivisto il cielo al tramonto. L'aria aveva lo stesso profumo, il silenzio era ancora poetico, pur con tutto quel che nel mondo accade... Ogni momento dovrebbe esser vissuto come una realtà a sé stante. Credo che soltanto in questa maniera potremmo riscoprirci come persone in via di cambiamento, d'evoluzione in cammino verso una méta che noi stessi siamo in grado di decidere. Se non si riesce ad esser padroni di sé nei momenti di tranquillità, come potremmo esserlo nei frangenti più agitati o drammatici della vita?