Nell'ultimo post ho tematizzato un pensiero correlato al mio prossimo, breve, viaggio a Mosca.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.
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