Alla vigilia della partenza dei calabresi, che dicono addio a quest'isola remota che è stata teatro di una lunga estate, ha avuto luogo anche un evento di portata mediatica straordinaria.
Il presidente Berlusconi ha ospitato il colonnello Gheddafi, personaggio potente e noto per la discutibile sobrietà di abbigliamento, per un evento che (secondo alcuni) stabilisce un nuovo capitolo della storia d'Italia.
L'Italia chiede scusa per la barbarie del colonialismo e sigilla con la Libia un patto di amicizia. Da qui la giornata dedicata a un così grande evento: hanno sfilato la cavalleria dei carabinieri, alla presenza delle autorità italiane, e pure l'esotica cavalleria berbera. Il significato simbolico di tutto non si discute; non è questo che ci muove a scrivere un post per il blog.
Il movente dell'interesse, per noi, è nientemeno che il look esposto dal sempre giovane colonnello e leader libico. Vorremmo discutere del suo look, accostandolo pure al messaggio ideologico che l'uomo esporta, e che ne diviene un ineludibile supporto e metro di riferimento.
Abbiamo visto sfilare il colonnello in più vesti; sul carro guidato da un'auriga, era eretto col braccio innalzato verso la sua folla, coperto da una lunga tunica bianca che gli dava l'aspetto nobile di un console o di un aulico condottiero romano dell'antichità. In lui abbiamo rivisto uno splendore bizantino.
Poco dopo, forse per trovarsi adeguato al clima della sera, lo abbiamo visto indossare una giacca di pelle di qualcosa, forse cammello, con un cinturone in vita che gli conferiva l'aspetto di un guerriero. Complice il capello scuro e ricciolo, ci è tornato alla memoria Russell Crowe, il Gladiatore.
Vivendo a Malta, che è terra prediletta dall'immigrazione libica alla spicciolata, sappiamo che nessun libico ha gusti tanto raffinati e ricercati come quelli del leader Gheddafi.
Se analizziamo con attenzione la cura maniacale che l'uomo dedica all'immagine, forse comprendiamo qualcosa del post-moderno. O se non riusciamo a spingerci al nocciolo dell'argomento, di certo lo studio del particolare ci illustra qualche nuova proprietà del fenomeno moderno estetico in questione. (Perché, si crede con ogni ragione pure inconfutabile, che il post-moderno sia perfettamente inscritto nella modernità, e pure sia in essa prefigurato e parte costituente.
Dicevamo che l'ideologia resa esplicita dall'uomo è una misura del significato profondo della sua figurazione estetica. L'uomo dice a una platea di duecento hostess: "Convertitevi, figliuole. Facciamo che l'Islam sia la relgione d'Europa".
Un pensiero del genere, in quest'epoca alquanto secolare [presto scriverò un post appost-a su Charles Taylor, che ha pesantemente ingombrato il mio agosto] non può non suonare bizzarro. Le chiese si svuotano, ma già tale fenomeno è l'ultimo anello di un fenomeno che ha preso le mosse da lontano: la gente ha smesso di credere, quando l'opzione della non-credenza (o della credenza fai-da-te) ha iniziato ad apparire una via altamente preferibile, in quanto più pratica e utile in termini di razionalità economica finale.
Ove la libertà sembra mai sufficiente, dove si trova ancora qualcosa di oppressivo o repressivo contro cui lottare, ci giunge questa voce dell'Islam come religione d'Europa.
Pensando con un'orecchio a Taylor (esatto, pensando con un orecchio), potremmo vedere il sopravvenire dell'Islam sull'Europa come appunto una cura all'imbarbarimento degli uomini post-civilizzati, alla perdita di punti di riferimento, al casino insopportabile degli immaginari sociali contemporanei.
Ma se invece pensiamo con un occhio all'aspetto filo-tradizionale del colonnello, e subito lo leghiamo all'ideologia, dobbiamo renderci conto del vero significato di cosa è normalmente chiamato "post-moderno".
Lo stile del colonnello è senza tempo; in lui rivivono varietà di tendenze, antiche e primitive, come pure moderne e contemporanee, che lo rendono un soggetto estraneo alle categorie sociali che riconosciamo (e così pure conosciamo, siamo capaci di capire) nel mondo occidentale. Il nostro mondo per noi è familiare, ed anzi, diremmo citando (scadendo nella banalizzazione) Wittgenstein, che il nostro mondo è l'unico mondo che ci sia anche accessibile. Qui siamo capaci di riconoscere l'estraneita': anche di fronte a gente che parla idiomi lontanissimi, nel mondo occidentale riusciamo a capirci se pensiamo di far parte di un'epoca storica che è unica, che ci vede tutti compresenti.
Lo stile del colonnello è senza tempo, e soprattutto è forgiato come l'originale mélange di forme che di originale non hanno nulla. Gli occhiali da sole che l'uomo indossa si comprano in qualunque negozio d'ottica; la sua tunica può esser opera di un sarto, ma pure la possiamo ricreare se usiamo un lenzuolo. Quando indossa la veste militare, la quantità di decorazioni e medaglie (che si è conferito da solo) risulta eccessiva: lo sfarzo non risulta indice di un carattere spiritualmente aristocratico.
Che indicazioni traiamo del post-moderno, dunque, osservando il colonnello Gheddafi? Potremmo dire: è il superamento della periodizzazione, così come l'estinzione di qualunque ordine di categorie. L'originalità ne è abolita, e il nuovo significato della parola consiste nell'uso originale che di qualunque cosa oggi si fa.
C'è un ritorno continuo alla tradizione, al passato, e pure una propensione a estendere il passato in un futuro che si vuole luminoso e promettente. Eric Voegelin avrebbe aggiunto qui la peculiarità individuata in tanti moti rivoluzionari e pure nei movimenti politici e culturali più pervasivi e radicati: l'immanentizzazione dell'eschaton, quel che rende l'ideologia una vera e propria religione. Ma il ritorno alla tradizione è fin troppo fuorviante; il messaggio religioso e politico del leader libico risulta fin troppo debilitato dalle scelte di guardaroba compiute da Gheddafi.
Vorremmo trarre da cio' alcune considerazioni approfondite sull'essenza del fenomeno conosciuto come 'post-moderno', ma il luogo peculiare per il discorso non sembra il blog.
La visita di Muammar Gheddafi in Italia, come abbiamo detto all'inizio, è avvenuta in concomitanza della partenza degli amici calabresi. Devo spendere qualche parola per questi giovani stagisti (anzi, ormai ex-stagisti, visto che hanno concluso la loro brillante esperienza e gia' hanno fatto ritorno alla vita normale).
Non dubitiamo che Malta abbia costituito un capitolo importante della loro vita. Certamente Pasquale, Serafino, Emilio, Antonio e Bina non dimenticheranno i tre mesi trascorsi all'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb. Non dimenticheranno la strada che va dalla fermata dell'autobus fino all'appartamento; non dimenticheranno poi il tragitto che compie l'autobus che da Msida va fino a Paceville. Forse non dimenticheranno nemmeno il casino di adolescenti in quel viottolo che serpeggia nei locali di divertimento notturno, in cui spesso si sono avventurati gia' ebbri. Facciamo i migliori auguri a questi giovani calabresi, con l'augurio che il ritorno alla vita normale e ordinaria non rappresenti una ricaduta nella vita piatta, convulsa, di labili soddisfazioni. Sicuramente questi giovani hanno il futuro davanti. L'esperienza dello stage ha insegnato loro cose importanti: la principale, forse, è che fare uno stage non serve a molto.
Ma in definitiva (come gia' abbiamo argomentato in tante occasioni) forse non esistono le perdite di tempo. Percio', va intesa questa avventura come un'occasione che a tutti è stata data per incontrarci e divertirci insieme. "Chi vuol esser lieto sia, del domani non v'è certezza". E questa digressione sul tempo profano (dunque vuoto) passato a Msida riporta all'estetica della vita post-moderna che, dobbiamo sottolineare, è ancora una volta coerente col tema del blog, che tratta nientemeno che del meraviglioso fenomeno delle cose belle.
Marzio Valdambrini - marzio19@yahoo.it
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