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lunedì 30 agosto 2010

Il post-moderno si chiama Gheddafi

Alla vigilia della partenza dei calabresi, che dicono addio a quest'isola remota che è stata teatro di una lunga estate, ha avuto luogo anche un evento di portata mediatica straordinaria.
Il presidente Berlusconi ha ospitato il colonnello Gheddafi, personaggio potente e noto per la discutibile sobrietà di abbigliamento, per un evento che (secondo alcuni) stabilisce un nuovo capitolo della storia d'Italia.
L'Italia chiede scusa per la barbarie del colonialismo e sigilla con la Libia un patto di amicizia. Da qui la giornata dedicata a un così grande evento: hanno sfilato la cavalleria dei carabinieri, alla presenza delle autorità italiane, e pure l'esotica cavalleria berbera. Il significato simbolico di tutto non si discute; non è questo che ci muove a scrivere un post per il blog.
Il movente dell'interesse, per noi, è nientemeno che il look esposto dal sempre giovane colonnello e leader libico. Vorremmo discutere del suo look, accostandolo pure al messaggio ideologico che l'uomo esporta, e che ne diviene un ineludibile supporto e metro di riferimento.
Abbiamo visto sfilare il colonnello in più vesti; sul carro guidato da un'auriga, era eretto col braccio innalzato verso la sua folla, coperto da una lunga tunica bianca che gli dava l'aspetto nobile di un console o di un aulico condottiero romano dell'antichità. In lui abbiamo rivisto uno splendore bizantino.
Poco dopo, forse per trovarsi adeguato al clima della sera, lo abbiamo visto indossare una giacca di pelle di qualcosa, forse cammello, con un cinturone in vita che gli conferiva l'aspetto di un guerriero. Complice il capello scuro e ricciolo, ci è tornato alla memoria Russell Crowe, il Gladiatore.
Vivendo a Malta, che è terra prediletta dall'immigrazione libica alla spicciolata, sappiamo che nessun libico ha gusti tanto raffinati e ricercati come quelli del leader Gheddafi.
Se analizziamo con attenzione la cura maniacale che l'uomo dedica all'immagine, forse comprendiamo qualcosa del post-moderno. O se non riusciamo a spingerci al nocciolo dell'argomento, di certo lo studio del particolare ci illustra qualche nuova proprietà del fenomeno moderno estetico in questione. (Perché, si crede con ogni ragione pure inconfutabile, che il post-moderno sia perfettamente inscritto nella modernità, e pure sia in essa prefigurato e parte costituente.
Dicevamo che l'ideologia resa esplicita dall'uomo è una misura del significato profondo della sua figurazione estetica. L'uomo dice a una platea di duecento hostess: "Convertitevi, figliuole. Facciamo che l'Islam sia la relgione d'Europa".
Un pensiero del genere, in quest'epoca alquanto secolare [presto scriverò un post appost-a su Charles Taylor, che ha pesantemente ingombrato il mio agosto] non può non suonare bizzarro. Le chiese si svuotano, ma già tale fenomeno è l'ultimo anello di un fenomeno che ha preso le mosse da lontano: la gente ha smesso di credere, quando l'opzione della non-credenza (o della credenza fai-da-te) ha iniziato ad apparire una via altamente preferibile, in quanto più pratica e utile in termini di razionalità economica finale.
Ove la libertà sembra mai sufficiente, dove si trova ancora qualcosa di oppressivo o repressivo contro cui lottare, ci giunge questa voce dell'Islam come religione d'Europa.
Pensando con un'orecchio a Taylor (esatto, pensando con un orecchio), potremmo vedere il sopravvenire dell'Islam sull'Europa come appunto una cura all'imbarbarimento degli uomini post-civilizzati, alla perdita di punti di riferimento, al casino insopportabile degli immaginari sociali contemporanei.
Ma se invece pensiamo con un occhio all'aspetto filo-tradizionale del colonnello, e subito lo leghiamo all'ideologia, dobbiamo renderci conto del vero significato di cosa è normalmente chiamato "post-moderno".
Lo stile del colonnello è senza tempo; in lui rivivono varietà di tendenze, antiche e primitive, come pure moderne e contemporanee, che lo rendono un soggetto estraneo alle categorie sociali che riconosciamo (e così pure conosciamo, siamo capaci di capire) nel mondo occidentale. Il nostro mondo per noi è familiare, ed anzi, diremmo citando (scadendo nella banalizzazione) Wittgenstein, che il nostro mondo è l'unico mondo che ci sia anche accessibile. Qui siamo capaci di riconoscere l'estraneita': anche di fronte a gente che parla idiomi lontanissimi, nel mondo occidentale riusciamo a capirci se pensiamo di far parte di un'epoca storica che è unica, che ci vede tutti compresenti.
Lo stile del colonnello è senza tempo, e soprattutto è forgiato come l'originale mélange di forme che di originale non hanno nulla. Gli occhiali da sole che l'uomo indossa si comprano in qualunque negozio d'ottica; la sua tunica può esser opera di un sarto, ma pure la possiamo ricreare se usiamo un lenzuolo. Quando indossa la veste militare, la quantità di decorazioni e medaglie (che si è conferito da solo) risulta eccessiva: lo sfarzo non risulta indice di un carattere spiritualmente aristocratico.
Che indicazioni traiamo del post-moderno, dunque, osservando il colonnello Gheddafi? Potremmo dire: è il superamento della periodizzazione, così come l'estinzione di qualunque ordine di categorie. L'originalità ne è abolita, e il nuovo significato della parola consiste nell'uso originale che di qualunque cosa oggi si fa.
C'è un ritorno continuo alla tradizione, al passato, e pure una propensione a estendere il passato in un futuro che si vuole luminoso e promettente. Eric Voegelin avrebbe aggiunto qui la peculiarità individuata in tanti moti rivoluzionari e pure nei movimenti politici e culturali più pervasivi e radicati: l'immanentizzazione dell'eschaton, quel che rende l'ideologia una vera e propria religione. Ma il ritorno alla tradizione è fin troppo fuorviante; il messaggio religioso e politico del leader libico risulta fin troppo debilitato dalle scelte di guardaroba compiute da Gheddafi.
Vorremmo trarre da cio' alcune considerazioni approfondite sull'essenza del fenomeno conosciuto come 'post-moderno', ma il luogo peculiare per il discorso non sembra il blog.
La visita di Muammar Gheddafi in Italia, come abbiamo detto all'inizio, è avvenuta in concomitanza della partenza degli amici calabresi. Devo spendere qualche parola per questi giovani stagisti (anzi, ormai ex-stagisti, visto che hanno concluso la loro brillante esperienza e gia' hanno fatto ritorno alla vita normale).
Non dubitiamo che Malta abbia costituito un capitolo importante della loro vita. Certamente Pasquale, Serafino, Emilio, Antonio e Bina non dimenticheranno i tre mesi trascorsi all'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb. Non dimenticheranno la strada che va dalla fermata dell'autobus fino all'appartamento; non dimenticheranno poi il tragitto che compie l'autobus che da Msida va fino a Paceville. Forse non dimenticheranno nemmeno il casino di adolescenti in quel viottolo che serpeggia nei locali di divertimento notturno, in cui spesso si sono avventurati gia' ebbri. Facciamo i migliori auguri a questi giovani calabresi, con l'augurio che il ritorno alla vita normale e ordinaria non rappresenti una ricaduta nella vita piatta, convulsa, di labili soddisfazioni. Sicuramente questi giovani hanno il futuro davanti. L'esperienza dello stage ha insegnato loro cose importanti: la principale, forse, è che fare uno stage non serve a molto.
Ma in definitiva (come gia' abbiamo argomentato in tante occasioni) forse non esistono le perdite di tempo. Percio', va intesa questa avventura come un'occasione che a tutti è stata data per incontrarci e divertirci insieme. "Chi vuol esser lieto sia, del domani non v'è certezza". E questa digressione sul tempo profano (dunque vuoto) passato a Msida riporta all'estetica della vita post-moderna che, dobbiamo sottolineare, è ancora una volta coerente col tema del blog, che tratta nientemeno che del meraviglioso fenomeno delle cose belle.

Marzio Valdambrini - marzio19@yahoo.it

mercoledì 25 agosto 2010

Estetica contemporanea del paesaggio. Terza visita a Tuffiah Bay.

Tanti pensieri si accavallano, i progetti vanno a gambe all'aria. Le coppie si disfano, ogni mano di poker scopre segreti impensati. Eppure qualcosa sopravvive, e sfida le regole del gioco.
Queste parole si prestano bene a illustrare una cosa che stavo scrivendo... prima di interrompermi, per andare a girare i fusilli che nella pentola rischiavano di incollarsi.
Adesso voglio parlare d'altro; la coerenza anzitutto.
Per la terza volta, nell'arco della mia esperienza maltese, sono stato a Tuffiah Bay, un luogo splendido sulla costa nord-occidentale dell'isola. Non ero solo; la presenza di un'amica ha allietato il viaggio.
Ci siamo arrampicati con le infradito sulla collina di rocce che domina la punta della baia, e che confina con un'altra baia normalmente famosa per la presenza di nudisti. Da lassù abbiamo ammirato la profondità del panorama, che si estendeva in tutte le dimensioni. Lassù, alle pendici rocciose di quel luogo tanto mediterraneo, ho riflettuto per almeno un minuto sull'estetica del paesaggio.
Adesso, con più calma e nella quiete (ugualmente torrida, purtroppo) del divano nel soggiorno, posso tracciare dei collegamenti bibliografici con tale soggetto. Hegel vedeva nelle Alpi un luogo tetro, dove non vi era bellezza e il disordine privo di estetica che la natura aveva prodotto. (Anche lui era legato a una concezione dell'estetica legata a un'idea di eticità). Burke, più tardi, ha invece amato gli spettacoli tribolanti della natura, esprimendo il piacere delle grandi potenze che trascendono l'uomo e superano la ragione (e perciò l'etica). Personalmente non credo che il bello e il brutto siano attribuzioni relative di significato, come una certa tendenza volgare dell'estetica contemporanea ci spinge a ritenere. C'è del bello in tante cose; nei monti e nei laghi, nelle frasche e nei pioppi, nelle dune di sabbia giallina come pure nelle pendici scoscese di un crepaccio. Ma nella natura, in ciò che la natura ha prodotto in epoche antiche o primordiali, possiamo davvero dire che ci sia qualcosa di brutto? Il Vesuvio va detto brutto, per il fatto che insidia la vita dei napoletani? Non crediamo questo. Lo avremmo detto se, anche noi come Hegel, avessimo pensato in termini di un'estetica permeata da una connotazione etica. Ci vorremmo domandare, a questo punto: ma oggi, dove la natura selvaggia è diventata un interessante argomento d'esplorazione, un vasto mondo da sfruttare ai fini dell'industria turistica, e le sue stereotipazioni attraggono visitatori, cercatori di riposo e di solitudine, eccetera eccetera, in tutto questo contesto, può trovarsi ancora un paesaggio naturale che vada considerato brutto?
Crediamo di no. (Escludendo ovviamente i paesaggi su cui ha inciso la mano dell'uomo). La spiegazione sta nel fatto, probabilmente, che oggigiorno la civilizzazione umana ha svelato le proprie brute conseguenze (dopo aver illustrato, propagandato e declamato però le preziose conquiste). Con ciò, è apparso che le acque avvelenate dal petrolio e dai diserbanti, le terre rese sterili dagli stessi veleni, per non parlare delle terre rase al suolo da qualche guerra, devono il loro connotato di bruttezza alla determinante incidenza dell'intervento umano. La natura alterata dall'uomo è una natura depauperata, giustamente oggetto di una valutazione morale. E qui si reintroduce la concezione hegeliana del paesaggio: un luogo distrutto dalle bombe è un brutto spettacolo, perché alla semplice osservazione si aggiunge la considerazione etica di quel che l'ha portato ad esser tale. Vogliamo notare questo spostamento di significato in chiave di interpretazione estetica: è la visione del paesaggio risultato dell'azione umana che si è spostata la concezione di una "estetica morale" come quella avallata da Hegel e dai suoi colleghi romantici tedeschi. Perché la concezione estetica ha perduto il tema etico, nel corso del Novecento, e l'ha ritrovato più recentemente, ma applicato solo a quel che l'uomo ha manipolato? Potremmo rispondere in questo modo (volendo esser rapidi, perché è tardi e questo è solo un blog): l'uomo si è reso conto che la natura non fa cazzate.
[Il sottotesto della conclusione può esprimersi, in chiave argomentativa, così: dal momento che la natura tende a creare un'armonia, non può trovarsi nulla di brutto al suo interno. L'azione dell'uomo ne modifica l'opera e la stravolge. L'intervento disarmonico è "brutto" perché rivela (nel senso heideggeriano del termine) la corruzione di quanto prima era posto. Ogni intervento perturbatore dell'ordine naturale (che col tempo ha assunto una connotazione etica positiva), che oggi è perlopiù identificato con l'intervento dell'uomo che stravolge un habitat per piegarlo ai suoi fini, è brutto dunque perché nega quel che si ritiene positivo. Scopriamo così che il brutto non è tanto l'antitesi del bello, quanto invece ciò che fa violenza al bello. Il brutto, nell'estetica del paesaggio, è la categoria di tutto quanto si è sostituito a qualcosa di incontaminato che gli preesisteva, e che l'intervento umano ha soppresso o modificato con propositi privi di preoccupazione per il rispetto ambientale.]

Marzio Valdambrini

sabato 21 agosto 2010

Un altro sabato a ragionare di estetica e di caldo.

Un altro sabato ci trova a Msida, e per l'esattezza ci trova sul sofà. E qui pensiamo bene di scrivere qualcosa sul blog, che giace inerte e muto da 3 lunghi giorni. Cosa scrivere? Quale nuovo argomento, importante o irrisorio, a cui dedicare cinque minuti del nostro tempo?
Quando il sole tropicale picchia, e si suda anche solo a respirare, tutto ci appare sotto una luce diversa. Nessuna categoria estetica è stata ancor'oggi definita rigorosamente, per poter esprimere questo sentimento che fonde la melancolia con lo spleen baudelariano.
Gli amici oggi mi hanno abbandonato: sono andati a Gozo, l'isola a est di Malta. Staranno via tutto il weekend, e in questo lasso io sperimenterò la più accaldata delle solitudini. A consolarmi, ci sarà soltanto il corpulento volume dell'Età secolare, di Charles Taylor. Beh, ci sarebbe anche il barbecue di stasera, ma quello più che una consolazione mi pare un obbligo che mi è imposto dai legami sociali che involontariamente ho intessuto con chi mi stava attorno.
Ecco, possiamo parlare dell'estetica dei legami sociali.
Ogni relazione può dirsi bella o brutta. Nella banalità delle espressioni, è indubbio che il fatto che si percepisca ogni relazione connotata da una specifica qualità sensibile; che ci rallegra o ci annoia, che ci opprime o ci è indifferente e in tal caso è solo uno scialbo pretesto per passare il tempo. Il fatto che l'uomo sia un animale sociale, o che la sua natura sia soprattutto sociale (come oggi tanti sociologi sottolineano e ripetono fino alla nausea) vorrebbe farci pensare dunque che l'uomo nasce, cresce e si sviluppa in costante riferimento alla rete sociale in cui vive inserito. La vita stessa, è la congiunzione del sé con una pluralità di elementi esterni, quali appunto gli altri individui e tutto quel che le circostanze vi includono. L'estetica della vita sociale è dunque la tessitura di tante note, che insieme compongono un'armonia. Oggi siamo in compagnia di una persona che ci rallegra; domani ne avremo a noia. Un altro domani, forse, ne sentiremo accresciuta l'importanza. Il mistero delle cose belle, così come quello di ogni relazione che ci appaga o ci entusiasma, sembra dunque pertinente a un mistero più grande, che chiamiamo da sempre il mistero della vita. Quest'ultimo infatti lo comprende; se il piacere o il disprezzo (come ogni impressione estetica) concerne una relazione, univoca o biunivoca, ma sempre avuta all'interno di un discorso sociale, e pure consideriamo che l'uomo è per essenza un animale sociale, ci appare ovvio che il problema estetico sia pure un problema antropologico. Da qui il rimando all'estetica in chiave di scienza umana (e si ricordano le ricerche in materia svolte da Levy-Strauss). Ma se superiamo il piano puramente empirico, qual'è appunto quello trattato dallo scienziato, e ci volgiamo al mistero, troviamo che nella percezione estetica si rivela qualcosa di trascendente. E questo è ciò che un approccio antropologico all'argomento deve per forza travisare. Dicendo che il mistero della bellezza pertiene al più grande mistero della vita diciamo appunto questo: vi è un rimando più forte, superiore alle categorizzazioni e alle spiegazioni causali del sentimento di qualcosa o qualcuno (come pure di una relazione sociale), che non è affatto riducibile a una logica meccanicistica (quale si intende, nel più comune e banale degli esempi, la logica dell'utile o dell'interesse).
Cercheremo di approfondire il discorso in altra sede.
Adesso ci limitiamo qui a subire il caldo; come unico rimedio abbiamo la possibilità di andare in camera, dove spira adesso un filo di vento. Per introdurre il prossimo post (o uno dei prossimi), attacco qui sotto il link a uno splendido video di Georges Ivanovic Gurdjeff, un grande maestro dell'Occidente, che merita decisamente la nostra attenzione.

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mercoledì 18 agosto 2010

Cossiga non c'è più, e intanto Irene, Vanessa e Francesca tornano in Italy

Pochi lo sanno, ma Francesco Cossiga, il celebre democristiano che voleva prendere a picconate l'Italia, nella sua poliforme esistenza è stato pure un cavaliere di Malta. Non è una cazzata! Guardate la pagina su Wikipedia che gli è dedicata. E siccome qui ci troviamo a Malta (e in particolare a Msida, in un posto afoso in cui un alito di vento non arriva neanche a pagarlo, e in cui per sopravvivere bisogna affidarsi al ventilatore old-style se non al condizionatore) avvertiamo la necessità di trarre un parallelo.
Il parallelo è il seguente. Il vecchio senatore a vita, raggiunta ormai un'età veneranda, se ne va nel mondo dei più e lascia la poltrona a qualche giovane rampollo di belle speranze che attende la gloria nel mondo della politica (il giovane rampollo, si intende, avrà altrettanti agganci e sarà forse altrettanto disposto a salvare la democrazia, a fronte di minacciose contestazioni). Un uomo se ne va, e intanto al mondo ne viene un altro.
E' il mistero della vita: si viene e si va. Tutto è transitivo, e ogni cosa sembra destinata a divenire altro.
In quest'orizzonte di mutamento va inscritta anche l'esperienza di Irene, Francesca e Vanessa. Queste sono tre stagiste che hanno appena terminato il progetto Leonardo. Un progetto di tre mesi, che hanno affrontato col massimo entusiasmo, con la determinazione che oggi è necessaria per chiunque abbia la seria intenzione di avviare qualcosa di importante nella vita. Le loro attese, i loro sogni, le loro ambizioni avranno trovato un responso, una felice ricompensa? Il futuro è pieno di incognite, ma la luce che lo illumina proviene dal presente.
Le ragazze sanno che oggi tutto è difficile. Le cose belle - diceva Socrate, e già lo abbiamo ricordato altrove - sono difficili.
Non ci vogliamo accontentare, noi. Siamo preparati alle intemperie, possiamo soffrire e continueremo a soffrire, nell'impossibilità di veder trionfare la giustizia, quella che premia i sacrifici e punisce gli stronzi.
Il discorso si sta allargando in maniera poco coerente, e forse dobbiamo circoscriverlo allo specifico evento della partenza delle ragazze. La loro esperienza maltese è conclusa e un'altra - sicuramente diversa, sicuramente ricca di più concrete finalità - inizierà. Chi troverà lavoro, chi proseguirà gli studi, chi riuscirà a fare entrambe le cose. Chi si innamorerà. O chi invece si ri-innamorerà. Chi invece non ha bisogno di nulla di ciò, e forse continuerà a vivere come viveva esattamente prima di intraprendere il viaggio maltese; in tal caso tornerà quello che era prima, salvo avere dei contatti in più su Facebook.
Cosa possiamo dire, allora, se non un augurio di prosperità e serenità a queste ragazze, che hanno messo in gioco il loro tempo e hanno accettato di vivere un'esperienza come lo stage appena trascorso? Un abbraccio a tutte voi, ragazze! Nessuno vi dimenticherà! (anche perché vi abbiamo taggato in tutte le foto che conserviamo di voi).
Il rimpianto per il tempo passato insieme, nel caso particolare il tempo che abbiamo vissuto con voi in giro per l'isola e nell'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb, è un sentimento che si ascrive al nocciolo delle cose belle.
Ci rievoca anche le parole con cui Ernst Junger, l'instancabile esteta ed entomologo tedesco, apriva il suo romanzo Sulle scogliere di marmo.
"Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!".

lunedì 16 agosto 2010

L'amore al tempo del calore - E Letizia se ne andrà

Domani Letizia se ne andrà. Alle ore 7 il suo volo la porterà lontano da qui, da quest'isola selvaggia e battuta dal sole africano, in cui l'uomo ha stabilito un precario e difficile accordo con la Storia. Trovavo nelle pagine di Garcia Marquez una frase che descriveva il rapporto simbiotico tra l'uomo e la natura. Purtroppo il tempo, e gli impegni variegati che mi obbligano a non perseguire in certi propositi, mi han fatto dimenticare il riferimento preciso; per non rischiare un errore eviterò di fare citazioni.
Dicevo, insomma, che il volo di domani mattina porterà via il rosso ruggine dei capelli di Letizia, nonché il suo sorriso. Che ci resterà, per allietare queste giornate che il mondo postmoderno ci obbliga a trascorrere davanti a Facebook? Che ne sarà di Letizia, ora che il progetto Leonardo è arrivato al capolinea, e per lei si tratta di voltar pagina? La sua prossima avventura le farà dimenticare i momenti maltesi che ha vissuto sull'isola? (Non con me, visto che ci siam visti poco e in maniera sfuggevole). La vita ha per lei in serbo tante sorprese. Non sappiamo quali, ma certo saranno floride e piene di fortuna, perché così è l'orientamento aperto ed entusiasta con cui Letizia si rivolge alla vita.
Deh, ma questo post sta venendo fuori un pappone; cerchiamo di tornare sui binari del solito stile.
Dobbiamo anche domandarci: e che ne sarà di noi, al termine di quest'esperienza? Cosa ci porteremo nel cuore, e come saremo cambiati? Riconosceremo le nostre nuove angosce, che forse rispecchieranno quelle antiche, cioé del tempo che precedeva il Leonardo, e forse precedeva la nostra coscienza immatura delle cose belle? Qualcosa mi spinge a pensare che è proprio quella coscienza immatura, che ci fa godere con più trasporto delle cose belle.
Ma per questo, scriverò un altro post.
Adesso è l'ora della cena.

domenica 15 agosto 2010

Caravaggio era un assassino

Visitare la Cattedrale di San Giovanni è un'esperienza indimenticabile. Nel corso dei secoli ci hanno accatastato pezzi d'arte del genere più raffinato, i famosi cavalieri hanno tolto l'eredità ai figli per addobbare le cappelle di questa grande costruzione barocca con chiostri, statue, incisioni, pitture, e quant'altro si possa immaginare. L'impressione, in certi spazi, è che il barocco si commuti in una forma modernissima di art decò (soprattutto in una cappella, in cui il simbolo della croce maltese ripetuta sull'intera parete offre l'impressione di una riproduzione tecnica piuttosto che liberamente manuale. Nell'Oratorio della Cattedrale si trova il grande dipinto di Caravaggio, che rappresenta la decapitazione del Battista. La guida ci informa delle vicissitudini che hanno spinto l'artista italiano nell'isola dei Cavalieri. In fuga a seguito dell'uccisione di un uomo, ferito da lui a morte, e nell'attesa speranzosa dell'assoluzione da parte del Papa, Caravaggio sbarcò e fu ben accolto nell'isola, dove fu incaricato di fare alcuni lavori. La sua aspirazione era inoltre quella di diventare Cavaliere di Malta, e la benevolenza di un gran maestro dell'Ordine lo facilitò nell'investitura.
In qualche post precedente, se mi ricordo bene, ho parlato della violenza, e del suo rapporto con l'arte. Non si può ripensare a questo, ricordando il carattere intemperante dell'artista, che lo condusse a un ennesimo delitto. Il celebrato artista, infatti, si rese colpevole della morte di un venerato maestro dell'Ordine, tantoché lo stesso maestro che lo aveva ben accolto si trovò ad espellerlo e a giudicarlo fuori legge. L'evasione di Caravaggio, ancora una volta in fuga, segna un'ennesima tappa nella vita di questo estroso e sanguigno personaggio, che noi abbiamo per tanto tempo raffigurato sulla banconota da centomila lire.
La sua immagine sulla banconota lo vorrebbe testimonial del denaro; ma qui, sulla carta filigranata, già notiamo i suoi occhi spiritati, il volto ottenebrato da una passione sconosciuta, e l'intensità dello sguardo ci induce a credere che si trattasse di un'anima volubile.
Come definire la violenza, allora, se non l'incapacità di sottomettere le passioni a una regolazione morale, e dunque l'irrompere e il prevaricare della natura umana su quel che intorno a noi, nella vita sociale che ci regola negli istinti e ci guida nell'incanalare in modo costruttivo le nostre tendenze, si pone da argine e metro per la stabilità?
Nel blog non trattiamo però di questioni morali, e se introduciamo qualche riga sulla violenza è un fatto dovuto al tema artistico. La violenza condusse l'artista alla latitanza, nonché alla scomunica, e infine all'isolamento da parte dei benefattori che pure lo avevano sostenuto all'inizio. Ma è certo, forse, che la fortuna dell'uomo è il contraltare della disgrazia.
Nella disgrazia l'uomo ricade negli inferi, attraversa un cammino inverso che lo riporta al magma primordiale della vita, del brulicare di cose, idee, pensieri, situazioni lasciate del tutto in balia del caso; questo è lo stadio primordiale, in cui il percorso per il raggiungimento di una verità è da ripercorrere dall'inizio. Nella vita, tuttavia, non si può tirare i dadi all'infinito.
A un certo punto, i risultati delle nostre azioni vengono alla luce nella loro solidità. Siamo gratificati o condannati. Nel caso dell'artista barocco, va notato che la sua libertà incontrollata gli ha posto un cappio intorno al collo.
E dunque, c'è una morale della favola, per l'uomo che stava inquieto sulla banconota da centomila lire? Forse no. O forse sì: è magari il caso di ricordare la Favola delle api di Mandeville, ove si sostiene, con una celebre argomentazione, che i vizi privati spesso si prestano in favore di un'utilità pubblica.
Insomma, per aggiungere una cornice alla riflessione notturna del pomeriggio di due giorni precedenti, posso dire che nella Cattedrale faceva fresco. Ero in compagnia di Bina e di Emilio. Oggi ho trascorso il giorno a Sliema e la serata seduto a un caffé all'aperto. Ma questo è meno importante ai fini del blog, che, come già detto e ripetuto, ha per oggetto esclusivo l'indagine fenomenologica delle sensazioni piacevoli e delle cose interessanti.

venerdì 13 agosto 2010

Le stelle non le ho viste

Ho fatto la doccia, ho mangiato una specie di kinder delice, e infine ho accompagnato gli amici alla fermata dell'autobus. Sarei dovuto andare con loro a Valletta, dove un altro autobus ci avrebbe portati a Ta-Qali, ossia al parco nazionale maltese. Era previsto che avremmo guardato le stelle cadenti.
Da ultimo, però, alcuni pensieri repentini mi hanno fermato e mi hanno spinto a riflettere: perché cercare uno spettacolo così triste, com'è quello delle stelle che cadono? Il significato della morte, della caduta, dello spegnersi o del crepare, non va confuso con l'estetica dei luoghi comuni, che vuole "romantico" qualcosa che ha significato solo in riferimento a un qualche immaginario di riferimento. La fenomenologia dei sensi, prima di tutto, esige che le cose siano apprezzabili per quel che sono di per sé.
(Questa considerazione mi viene adesso spontanea, se avessi voluto cercare un alibi per il mio dietro-front, che m'ha fatto tornare poi a casa. Avevo anche un'altra motivazione, che trovo però giusto adesso tralasciare, perché poco adatta all'estetica del discorso).
Stavamo parlando delle stelle cadenti.
Mi torna in mente un passo del Paradise Lost di Milton, che lessi molto tempo fa. (Forse addirittura lo confondo con qualcos'altro, complice appunto la distanza che mi separa dalla stessa lettura). Qui, ricordo, si dice che le stelle importanti sono già cadute, e quelle che restano in cielo sono i pezzettini che quelle grosse, le stelle serie, hanno lasciato per aria al momento del collasso. Un altro poeta, meno lirico e forse ancor meno anglosassone, ha scritto che in cielo si vede risplendere la luce di stelle che sono esplose e percio' decedute da migliaia di anni, e solo con un enorme ritardo noi vediamo lo splendore a causa appunto dell'enorme distanza di anni luce che ci separa.
Le stelle cadenti mi portano a pensare questo, appunto: gli anni e la luce.
Alcuni anni fa avevo pensato di scrivere una poesia, ma poi mi è sembrata una cosa inutile. Ci sono già i tecnici che lo fanno di professione, e magari quel che loro dicono sollecita la fantasia molto più di quanto facciano i reveurs, cioè quelli che non si preoccupano di dimostrare la verità (e cioè l'inclusione in una rete di significati intrecciati e di circolare rimando).
Adesso sono le 13,25, si avvicina cosi' l'ora di chiusura dell'ufficio. Oggi pomeriggio andrò con Bina a vedere il quadro di Caravaggio che sta nella Cattedrale di Saint John. Cercherò di scrivere qualcosa in proposito, avendo finalmente un oggetto d'arte per il blog, che appunto vuol trattare di cose esteticamente importanti, piccole come un lapislazzulo o grandi come una cucina a incasso.

mercoledì 11 agosto 2010

Il tempo maltese e le domande per strada (1)

Dopo l'ufficio, nel pomeriggio, ho trovato ancora del tempo da buttare. Così ho percorso un tragitto, attraverso un sentiero di terra e asfalto tra la vegetazione mediterranea, lungo una fila di cactus e roba del genere. In questa maniera sono giunto alla palestra, dove mi sono iscritto per un mese. Vedrò così di conciliare il tempo secolare, che è qualitativemente indifferenziato, (ritrovo una considerazione di Charles Taylor nel libro che ho finito di leggere due giorni fa) e l'insoddisfacente varietà di svaghi che questa posizione mi offre.
Ho riflettuto ancora un po' su questa esperienza di stage. Forse non era la scelta da prendere; forse mi sarei dovuto comportare in altro modo. Insomma, col curriculum che ho, potevo trovarmi un lavoro serio anziché venir qua a sudare (per il caldo più che per la fatica) e ad imparanoiarmi per un lavoro che lavoro non è.
Ma chi ha la risposta a questo enigma, visto soprattutto che la domanda non so (e forse nessuno sa) come si formuli correttamente? Se mi domando: "Che lavoro potrei trovare in questo momento", allora mi sbaglio per una visione troppo minima; se mi domandassi "Che cosa mi piacerebbe fare", invece sarei tanto ingenuo da chiedermi qualcosa di troppo ideale e dunque astratto. Le domande intermedie non hanno un referente; e io non sono in grado di stabilire il futuro.
Prendere quello che passa, giorno per giorno, finisce per distruggere chi vuole sentirsi la terra ferma sotto i piedi.
Non ci credo alla modernità liquida, all'amore liquido, a tutte le cose liquide di cui un vecchio signore ha parlato. Credo che tutto sia solido; il tempo, il cuore, il lavoro. La struttura di ogni cosa è infatti solida, ma risente inevitabilmente di quel che noi ci infiliamo dentro. Ci mettiamo cose soffici e fragili, e tutto ci sembra ugualmente fragile. Se dipendesse solo dalle nostre intenzioni...
Ma sto andando fuori tema. Il blog vuole parlare di cose belle, e queste ancora si sfuggono.
Platone, nell'Ippia Maggiore, faceva dire infine a Socrate che "le cose belle sono difficili", e appunto, come non essere d'accordo, alla luce delle situazioni che ci avvelenano i pensieri sul mondo e su ogni cosa, come quelli che viviamo in una situazione come questa?
Niente lavoro serio, niente soldi, niente soddisfazioni artistiche. Le cose belle sono difficili... perché è difficile riconoscerle. L'incertezza ci porta alla confusione; non siamo padroni del nostro giudizio, quando siamo spinti a pensare in base a quel che vorremmo e non é, a quel che dovrebbe essere e non è, a quel che siamo costretti a fare e quel che ci sarà sempre precluso...
E così, dopo essermi iscritto in palestra, sono tornato a casa. Ho mangiato due piatti di pasta, e poi ho raggiunto Letizia e altri stagisti alla spiaggia di Sliema.
Erano già le sei, e tirava un venticello fresco che mi faceva sentire in pace con me stesso.
C'era meno gente del solito, forse perché i turisti hanno cambiato idea e hanno deciso di andarsene. (Frasi del genere ci stanno bene, per chiudere un post quando non si ha granché da dire. Non ricordo quello che volessi scrivere, quando ho iniziato a scrivere. Ma è vero, a quanto ho visto, che le cose più grandi si fanno senza avere idee in proposito... Insomma, sono discorsi da mezzanotte passata. Adesso è l'ora che mi sdrai sul letto maltese, e qui chiuda gli occhi).

martedì 10 agosto 2010

10 AGOSTO 2010 (morning)

La vita scorre troppo in fretta, e me ne accorgo nei momenti in cui ho cose stupide da fare.
Questa mattina, dopo il plum-cake, ho pensato a quel che mi avrebbe atteso durante la mattinata. Assolutamente nulla, fuorche' perdite di tempo per le quali non son neppure retribuito. (Questa tastiera maltese non ha gli accenti, e cosi' dona un che di esotico al linguaggio).
Sto pensando allo ieri, ma non perche' io sia una persona particolarmente riflessiva. Si tratta di questioni importanti: l'amore, il futuro, insomma, avete capito, quelle cose con cui tutti si ha da fare e che spesso entrano di prepotenza nei blogs, complici anche le strategie del web marketing.
E invece qui si parla di cose serie.
Non so se faccio bene a parlare delle mie cose sul web... C'e' l'impressione che persone poco simpatetiche possano leggere i miei stati d'animo, e non comprendere le sfumature di certe mie angoscie, di certe solitudini che vogliono restare tali, di certi scompensi emotivi che si traducono in reazioni quasi opposte.
Percio', faro' il possibile per dissimulare quel che e' giusto che resti soltanto mio.
Sono fermamente contrario all'esteriorizzazione. Credo che le cose belle siano belle perche' noi siamo capaci di cogliere e godere di questa bellezza. Ma qui si tratta di un rapporto personale, che non e' possibile condividere se non in una piccola misura.
Adesso, mi rendo conto pero' di aver travisato il discorso da cui ero partito. Non ricordo cosa volessi dire. Mi appresto adesso a bere un altro caffe', che stavolta e' il caffe' istantaneo. Qua a Malta un buon espresso e' difficile da trovare.