Ci sono momenti in cui vorrei fermarmi a pensare, magari sedermi su un morbido sofa', con la consapevolezza che faccio davvero quel che devo fare... Poi pero' mi alzo, perche' mi viene in mente che devo fare qualcos'altro, e poi altro ancora, e tutto questo e' un giro ininterrotto di movimenti che in realta' potrei evitare. Scrivere un post del genere non mi aiutera' probabilmente a dare una svolta radicale alla giornata... Si puo' vivere senza sapere cosa si fa, e soprattutto senza sapere cos'e' che potremmo fare di meglio? Non ci credo che si puo' sempre migliorare. Vale comunque la pena di fare un tentativo, che ci indichera' una meta da raggiungere.
(Ecco, fra l'altro e' intervenuto ora un affaticamento al mio polso destro, il che rende pure piu' lento lo scrivere...).
Mi trovo alla biblioteca di Shannon, che sta giusto davanti a casa mia. Davanti casa, abbiamo un grande prato bianco di gelo, che guardandolo da vicino permette di ammirare le sottili forme ghiacchiate dei fili d'erba, e pure alcune ragnatele rese plastiche dal clima. Niente pioppi, faggi, salici e giaggiuoli.
La mia giornata vera e propria inizia alle 13, visto che oggi lavoro col turno pomeridiano. Arriveranno finalmente le chiamate dai clienti azionisti della banca, che vorranno resettare la password e magari pretenderanno informazioni dettagliate e puntuali sul nuovo piano di investimento azionistico varato dalla loro azienda. I telefoni suoneranno, e tutti vorranno avere informazioni sulle loro azioni. L'azione (share), ho imparato, e' una parte del capitale di un'azienda. Ogni azione produce un dividendo, nel caso in cui l'azienda ottenga dei profitti alla fine dell'anno. Questi profitti vengono ripartiti tra gli azionisti, in maniera proporzionale alle azioni possedute da ciascun azionisti.
Queste sono le azioni del mercato, ma vi sono pure altre azioni, che il mio lavoro non considera e pure deve ignorare (per quella logica rigorosa e non del tutto univoca che il lavoro piu' moderno ha forgiato). Queste a cui alludo sono le azioni che si compiono nella vita naturale e irriflessa, ossia le scelte che facciamo ogni giorno, in cui ci rapportiamo a chi ci e' vicino e condivide la propria vita con noi. Queste azioni spesso non producono dividendi. Anzi, agendo in quelle occasioni, compiendo tali azioni nella vita privata e pubblica siamo del tutto all'oscuro di cosa siano i dividenti. Non amiamo le persone, non cambiamo canale davanti alla televisione, non ci dedichiamo alla descrizione del paesaggio pensando ai dividendi. Eppure, anche quelle azioni li' producono qualcosa.
E quanto una nostra azione produce non si ripartisce in maniera rigorosa, secondo appunto il criterio di distribuzione bancaria. Si ripartisce secondo altre logiche, che son dettate unicamente dalla predisposizione di ogni participante. Non c'e' proporzione, perche' il valore non e' misurato secondo una logica; il valore e' intuitivo, e percio' non e' discorsivo (e dunque e' illogico, giacche' logica deriva da logos).
Dovrei fermarmi qui per un'ora, ma l'orologio mi obbliga a far le cose di corsa. Riprendero' magari questo tema in un altro post.
Ora devo tornare a casa, devo radermi e partire. Mi attende una nuova avventura, in cui il mio destino si incrociera' con quello dei clienti azionisti.
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giovedì 9 dicembre 2010
sabato 27 novembre 2010
Iniquità irlandesi
Il bilancio della settimana non può dirsi in perdita. Lunedì mi sono trasferito nel nuovo appartamento, che ho affittato col collega Josh. Il contratto era già firmato, quando abbiamo scoperto il terribile inganno ordito dall'avido padrone di casa (the landlord). La pompa dell'acqua, chiusa in uno sgabuzzino, fa un casino infernale e abbiamo dovuto attendere per due giorni il fatidico intervento dell'idraulico.
Adesso siamo ai ferri corti: o il landlord interviene col suo cash per cambiare la pompa, o noi saremo costretti a rompere il contratto. Non sono cose facili da farsi. Purtroppo c'è di mezzo la legge, che come al solito protegge e tutela i disonesti e punisce gli ingenui per la loro ingenuità (questa scomoda virtù).
Ma la settimana mi ha riservato qualche momento piacevole.
La scorsa domenica andato sulla costa a vedere l'oceano, in un posto in cui non c'è altro, e l'attenzione mi è caduta sul distributore di palettine per rimuovere la cacca dei cani: tali oggetti qua sono chiamati Poop Scoop (poop sta per cacca, forse popò, e scoop credo che stia per paletta).
Beh, forse il bilancio di questa esperienza irlandese non è particolarmente ricco di argomenti.
Ma d'altra parte mi devo ancora ambientare, devo conoscere la cultura di questo popolo, e già trovare un punto di partenza non si presenta impresa facile.
Oggi è sabato, ho fatto una dormita che mi ha tolto le rughe di stanchezza e le borse sotto gli occhi, che ho tenuto da lunedì per via del sonno insufficiente. Davanti a me ho un weekend di relax.
Vorrei scrivere quanto ho appuntato nel corso della settimana ma non trovo più i foglietti. Non mi rammarico di questo: se non ricordo cosa avevo pensato, non posso nemmeno pensare a quel che avevo scritto.
Ne approfitto per dire di quell'articolo di Alberoni sul Corriere della Sera, che avevo anticipato nel precedente post.
Il sociologo dei salotti ha scritto che oggi non esiste più una divaricazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, quella vecchia distinzione che un tempo era attestata col possedere o no un pezzo di carta.
Quel che lui dice è vero, ed è pure banale. Io stesso mi ci ero soffermato, un paio d'anni fa, quando lavoravo come rappresentante di un costoso prodotto informatico. Dovetti far visitare a un potenziale cliente, che mi disse che pure un operaio deve usare l'intelletto per lavorare e portare a casa lo stipendio, e perciò era pure quello un lavoro intellettuale.
Pensai che il vero intellettuale è quello che usa l'intelletto per produrre effettivamente qualcosa, mentre il dipendente dell'università è solo un impiegato pubblico che fa il lavoro di un impiegato.
Pensai, spingendomi un po' più in là, che il lavoro intellettuale inteso alla maniera classica, nel mondo d'oggi non andrebbe neppure considerato come lavoro.
Il lavoro intellettuale non è lavoro, infatti, perché da esso non si trae utilità o profitto (se non in maniera indiretta, com'è il caso di chi insegna agli altri, che a loro volta dovranno fare lo stesso).
Quel che mi ha colpito, dell'articolo di Alberoni, è la conclusione che invece pone lui al discorso. Scrive che il merito o il talento di una persona deve prescindere dal possesso di un pezzo di carta, dal momento che oggi le competenze si acquisiscono sul campo. Non c'è nulla di sbagliato nel ragionamento, ma a stonare sono due cose: il mittente e il contesto in cui è lanciato il messaggio.
Se fosse davvero coerente, il mittente del messaggio dovrebbe specificare: "Io non so nulla di quel di cui parlo, e qualche tecnico delle caldaie forse avrebbe più diritto di me a scrivere articoli del genere sul Corriere". L'autore dell'articolo, invece, lascia del tutto in sospeso il discorso. La sua posizione non è minimamente trattata dallo stesso.
Se la prima preoccupazione di un "intellettuale" di professione dovrebbe essere la legittimazione della propria autorità di giudizio, va notato che qui tale preoccupazione non sfiora minimamente i pensieri dell'autore.
Può esser vero che la miglior scuola è la strada. Ma se a dirlo è uno come Alberoni, che senso bisogna dare alla frase?
Adesso siamo ai ferri corti: o il landlord interviene col suo cash per cambiare la pompa, o noi saremo costretti a rompere il contratto. Non sono cose facili da farsi. Purtroppo c'è di mezzo la legge, che come al solito protegge e tutela i disonesti e punisce gli ingenui per la loro ingenuità (questa scomoda virtù).
Ma la settimana mi ha riservato qualche momento piacevole.
La scorsa domenica andato sulla costa a vedere l'oceano, in un posto in cui non c'è altro, e l'attenzione mi è caduta sul distributore di palettine per rimuovere la cacca dei cani: tali oggetti qua sono chiamati Poop Scoop (poop sta per cacca, forse popò, e scoop credo che stia per paletta).
Beh, forse il bilancio di questa esperienza irlandese non è particolarmente ricco di argomenti.
Ma d'altra parte mi devo ancora ambientare, devo conoscere la cultura di questo popolo, e già trovare un punto di partenza non si presenta impresa facile.
Oggi è sabato, ho fatto una dormita che mi ha tolto le rughe di stanchezza e le borse sotto gli occhi, che ho tenuto da lunedì per via del sonno insufficiente. Davanti a me ho un weekend di relax.
Vorrei scrivere quanto ho appuntato nel corso della settimana ma non trovo più i foglietti. Non mi rammarico di questo: se non ricordo cosa avevo pensato, non posso nemmeno pensare a quel che avevo scritto.
Ne approfitto per dire di quell'articolo di Alberoni sul Corriere della Sera, che avevo anticipato nel precedente post.
Il sociologo dei salotti ha scritto che oggi non esiste più una divaricazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, quella vecchia distinzione che un tempo era attestata col possedere o no un pezzo di carta.
Quel che lui dice è vero, ed è pure banale. Io stesso mi ci ero soffermato, un paio d'anni fa, quando lavoravo come rappresentante di un costoso prodotto informatico. Dovetti far visitare a un potenziale cliente, che mi disse che pure un operaio deve usare l'intelletto per lavorare e portare a casa lo stipendio, e perciò era pure quello un lavoro intellettuale.
Pensai che il vero intellettuale è quello che usa l'intelletto per produrre effettivamente qualcosa, mentre il dipendente dell'università è solo un impiegato pubblico che fa il lavoro di un impiegato.
Pensai, spingendomi un po' più in là, che il lavoro intellettuale inteso alla maniera classica, nel mondo d'oggi non andrebbe neppure considerato come lavoro.
Il lavoro intellettuale non è lavoro, infatti, perché da esso non si trae utilità o profitto (se non in maniera indiretta, com'è il caso di chi insegna agli altri, che a loro volta dovranno fare lo stesso).
Quel che mi ha colpito, dell'articolo di Alberoni, è la conclusione che invece pone lui al discorso. Scrive che il merito o il talento di una persona deve prescindere dal possesso di un pezzo di carta, dal momento che oggi le competenze si acquisiscono sul campo. Non c'è nulla di sbagliato nel ragionamento, ma a stonare sono due cose: il mittente e il contesto in cui è lanciato il messaggio.
Se fosse davvero coerente, il mittente del messaggio dovrebbe specificare: "Io non so nulla di quel di cui parlo, e qualche tecnico delle caldaie forse avrebbe più diritto di me a scrivere articoli del genere sul Corriere". L'autore dell'articolo, invece, lascia del tutto in sospeso il discorso. La sua posizione non è minimamente trattata dallo stesso.
Se la prima preoccupazione di un "intellettuale" di professione dovrebbe essere la legittimazione della propria autorità di giudizio, va notato che qui tale preoccupazione non sfiora minimamente i pensieri dell'autore.
Può esser vero che la miglior scuola è la strada. Ma se a dirlo è uno come Alberoni, che senso bisogna dare alla frase?
martedì 16 novembre 2010
Una notte fredda e tempestosa a Shannon
Mi trovo adesso in Irlanda, per l'esattezza geografica mi trovo in un McDonald, in un posto che nella lingua indigena si direbbe in the middle of nowhere.
Una proposta di lavoro mi ha portato ancora una volta lontano. Cosi', sui due piedi, sono stato chiamato a prendere una decisione coraggiosa. L'incertezza dell'avvenire mi ha spinto ad accettare l'ignoto.
Non avrebbe avuto senso domandarsi se ho fatto bene o male ad accettare, nel caso che tutto fosse rimasto com'era fino a una decina di giorni fa. Ma invece il senso la domanda ce l'ha, perchè decidendo di accettare e trasbordarmi fin qui ho consapevolmente posto la parola Fine su un'avventura umana ed esistenziale che forse avrebbe tessuto la mia vita con una fibra piu' forte, piu' consistente perchè fatta di un significato.
Non mi piace raccontare i fatti miei e in pubblico, e percio' restero' nel vago in proposito. Non diro' quale sia la passione che ho sacrificato. E neppure diro' di quel sentimento avvilente che ora mi assale, mentre dalla finestrona con la M del Mac vedo la tormenta che funesta il luogo in the middle of nowhere.
Vorrei parlare delle cose belle, che scopro ogni tanto quando guardo fuori e scopro un mondo di incanto e meraviglie. Adesso devo fare i conti con le necessita' - e soprattutto con la solitudine che queste necessita' comportano.
Volevo pubblicare un post relativo a un articolo di Alberoni pubblicato una settimana fa sul Corriere della Sera (che certamente ha a che vedere, seppure in maniera indiretta, con lo spleen del mio viaggio) ma l'imprevisto della partenza mi ha dirottato verso altre riflessioni.
Tutto trovera' la giusta collocazione in the matter of a while.
(La tastiera irlandese non conosce le vocali accentate. Mi consento percio' di usare l'apostrofo per supplire alla loro assenza)
Una proposta di lavoro mi ha portato ancora una volta lontano. Cosi', sui due piedi, sono stato chiamato a prendere una decisione coraggiosa. L'incertezza dell'avvenire mi ha spinto ad accettare l'ignoto.
Non avrebbe avuto senso domandarsi se ho fatto bene o male ad accettare, nel caso che tutto fosse rimasto com'era fino a una decina di giorni fa. Ma invece il senso la domanda ce l'ha, perchè decidendo di accettare e trasbordarmi fin qui ho consapevolmente posto la parola Fine su un'avventura umana ed esistenziale che forse avrebbe tessuto la mia vita con una fibra piu' forte, piu' consistente perchè fatta di un significato.
Non mi piace raccontare i fatti miei e in pubblico, e percio' restero' nel vago in proposito. Non diro' quale sia la passione che ho sacrificato. E neppure diro' di quel sentimento avvilente che ora mi assale, mentre dalla finestrona con la M del Mac vedo la tormenta che funesta il luogo in the middle of nowhere.
Vorrei parlare delle cose belle, che scopro ogni tanto quando guardo fuori e scopro un mondo di incanto e meraviglie. Adesso devo fare i conti con le necessita' - e soprattutto con la solitudine che queste necessita' comportano.
Volevo pubblicare un post relativo a un articolo di Alberoni pubblicato una settimana fa sul Corriere della Sera (che certamente ha a che vedere, seppure in maniera indiretta, con lo spleen del mio viaggio) ma l'imprevisto della partenza mi ha dirottato verso altre riflessioni.
Tutto trovera' la giusta collocazione in the matter of a while.
(La tastiera irlandese non conosce le vocali accentate. Mi consento percio' di usare l'apostrofo per supplire alla loro assenza)
venerdì 5 novembre 2010
Le coordinate dei tempi
Dopo giorni noiosi, senza slanci emotivi o interesse per gli affari del mondo, ho deciso di accettare l'invito dei compagni di ostello. Dopotutto - mi son detto - i giorni sono contati e manca poco al momento del ritorno. Cosi' ieri sera abbiamo fermato un taxi "non ufficiale", una receptionist ha detto all'autista di portarci al Faq Caffe', e ci siamo avviati in due macchine diverse. Eravamo di tante parti del mondo. E' finita che ci siamo persi, e al Faq siamo sbarcati dopo un bel giro a pera. Poco piu' tardi abbiamo ripreso un taxi non ufficiale e siamo giunti al Propaganda. C'era gente di tanti tipi, ma soprattutto ragazzi sui vent'anni. Mi sono intenerito a vedere le ragazze russe basse e un po' rotonde, che mi hanno inevitabilmente ricordato le matrioske. Uno spagnolo dell'ostello, che era venuto con me, ha pure sfilato gli occhiali da vista ad una piccola matrioska; io ho assistito alla scena da lontano, e non ho capito molto sulle implicazioni di questo gesto. In seguito, avendo parlato con Jorge al ritorno, lui mi ha rivelato di averlo fatto per scoprire se magari quella fosse stata carina senza occhiali.
Non intendo soffermarmi tuttavia su tutti i particolari della serata. (Certo, bisognerebbe dire qualcosa sulla toilette degli uomini, in cui i vespasiani erano praticamente attaccati al lavandino, che incorniciavano in modo quasi simpatico).
Non voglio soffermarmi neppure sullo stato d'animo grigio e apatico che la citta' mi ha infuso. Neppure sui trips mentali che la disoccupazione mi infligge a ogni passo. Se sapessi un po' il tedesco, magari mi soffermerei su quel libro che un crucco ha scritto sul Piccolo Principe e Nietzsche (libro che ho trovato qui in ostello, e che il solo sfogliare disinteressato mi ha fatto intuire l'essenza di cui tratta).
Vorrei soffermarmi sui nomi della letteratura che si fa mercato. Di questi non ce n'e' uno che mi appassioni. Ho provato a leggere qualcosa di Fabio Volo, Coelho, Baricco, una volta persino Moccia mentre ero in fila al supermercato e l'ultimo best-seller era li', sulla mensola delle mentine e dei Ferrero Rocher. Appartengono tutti alla stessa categoria, ed e' il riferimento a un comune contesto zeppo di superficialita' mascherata, che e' quello che rende tutto comprensibile. Un autore fuori dal contesto morirebbe di fame. C'e' una specie di sociologo, che vedevo ospite al Maurizio Costanzo Show, che dice soltanto cazzate e i suoi libri editi da Mondadori occupano posizioni in vista in ogni libreria. Non ci si puo' stupire di nulla, visti gli assi cartesiani che si son tracciati per dare collocazione ai risultati dell'intelligenza. Quale intelligenza? Ancora una volta, si tratta dell'intelligenza contabilizzata dal mercato.
Perche' pensare a cio', durante la settimana moscovita in cui (tra l'altro) si e' celebrata la conquista del potere, tanti anni fa, ad opera dei rivoluzionari bolscevichi? Anche questa e' un'associazione di idee avulsa da una logica imposta.
Anche qua la miseria dell'Occidente e' arrivata, coi reality shows e le grandi insegne pubblicitarie di Pepsi o McDonald. Il mondo e' bello perche' e' bello, mi sono accorto, e non perche' e' vario. Anzi, forse vario oggigiorno non lo e' poi tanto... Al Propaganda eravamo un italiano, uno spagnolo, un indonesiano, un egiziano, due olandesi e tre tedeschi, e abbiamo scoperto che parlavamo delle stesse cose. Qualcuno non puo' vivere senza la connessione wi-fi. Quasi tutti siamo su Facebook.
Il nostro futuro e' dove noi vogliamo costruirlo.
Se Dio non esiste, questo e' il piu' piatto dei mondi possibili.
Tornando a casa ho attraversato la piazza rossa, e ho compreso che si chiama cosi' non per via del colore dei comunisti, ma semplicemente perche' e' rossa. Siamo sempre portati a pensare a un significato di eccesso, qualcosa che da' il senso alle parole semplici. Perche' le cose non sono semplici di per se', ma lo sono se noi le consideriamo semplici. (Come appunto avevo detto in altro luogo delle cose complicate, che appunto sono complicate perche' siamo noi a complicarle).
Forse non e' il caso di proseguire su questa linea di ragionamento, tuttavia. Si finisce per incorrere in paradossi, o peggio, in un solipsismo assoluto che puo' vestire i panni di qualunque nichilismo.
Percio' guardiamo avanti, promettendo che presto riprenderemo a occuparci qui della sola fenomenologia delle cose belle. (Essendo questo l'argomento che ci ha mosso tempo fa alla creazione del blog).
Dal momento che la tastiera russa non conosce l'esistenza delle vocali accentate, mi sono dovuto arrangiare un po' cosi'.
Non intendo soffermarmi tuttavia su tutti i particolari della serata. (Certo, bisognerebbe dire qualcosa sulla toilette degli uomini, in cui i vespasiani erano praticamente attaccati al lavandino, che incorniciavano in modo quasi simpatico).
Non voglio soffermarmi neppure sullo stato d'animo grigio e apatico che la citta' mi ha infuso. Neppure sui trips mentali che la disoccupazione mi infligge a ogni passo. Se sapessi un po' il tedesco, magari mi soffermerei su quel libro che un crucco ha scritto sul Piccolo Principe e Nietzsche (libro che ho trovato qui in ostello, e che il solo sfogliare disinteressato mi ha fatto intuire l'essenza di cui tratta).
Vorrei soffermarmi sui nomi della letteratura che si fa mercato. Di questi non ce n'e' uno che mi appassioni. Ho provato a leggere qualcosa di Fabio Volo, Coelho, Baricco, una volta persino Moccia mentre ero in fila al supermercato e l'ultimo best-seller era li', sulla mensola delle mentine e dei Ferrero Rocher. Appartengono tutti alla stessa categoria, ed e' il riferimento a un comune contesto zeppo di superficialita' mascherata, che e' quello che rende tutto comprensibile. Un autore fuori dal contesto morirebbe di fame. C'e' una specie di sociologo, che vedevo ospite al Maurizio Costanzo Show, che dice soltanto cazzate e i suoi libri editi da Mondadori occupano posizioni in vista in ogni libreria. Non ci si puo' stupire di nulla, visti gli assi cartesiani che si son tracciati per dare collocazione ai risultati dell'intelligenza. Quale intelligenza? Ancora una volta, si tratta dell'intelligenza contabilizzata dal mercato.
Perche' pensare a cio', durante la settimana moscovita in cui (tra l'altro) si e' celebrata la conquista del potere, tanti anni fa, ad opera dei rivoluzionari bolscevichi? Anche questa e' un'associazione di idee avulsa da una logica imposta.
Anche qua la miseria dell'Occidente e' arrivata, coi reality shows e le grandi insegne pubblicitarie di Pepsi o McDonald. Il mondo e' bello perche' e' bello, mi sono accorto, e non perche' e' vario. Anzi, forse vario oggigiorno non lo e' poi tanto... Al Propaganda eravamo un italiano, uno spagnolo, un indonesiano, un egiziano, due olandesi e tre tedeschi, e abbiamo scoperto che parlavamo delle stesse cose. Qualcuno non puo' vivere senza la connessione wi-fi. Quasi tutti siamo su Facebook.
Il nostro futuro e' dove noi vogliamo costruirlo.
Se Dio non esiste, questo e' il piu' piatto dei mondi possibili.
Tornando a casa ho attraversato la piazza rossa, e ho compreso che si chiama cosi' non per via del colore dei comunisti, ma semplicemente perche' e' rossa. Siamo sempre portati a pensare a un significato di eccesso, qualcosa che da' il senso alle parole semplici. Perche' le cose non sono semplici di per se', ma lo sono se noi le consideriamo semplici. (Come appunto avevo detto in altro luogo delle cose complicate, che appunto sono complicate perche' siamo noi a complicarle).
Forse non e' il caso di proseguire su questa linea di ragionamento, tuttavia. Si finisce per incorrere in paradossi, o peggio, in un solipsismo assoluto che puo' vestire i panni di qualunque nichilismo.
Percio' guardiamo avanti, promettendo che presto riprenderemo a occuparci qui della sola fenomenologia delle cose belle. (Essendo questo l'argomento che ci ha mosso tempo fa alla creazione del blog).
Dal momento che la tastiera russa non conosce l'esistenza delle vocali accentate, mi sono dovuto arrangiare un po' cosi'.
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martedì 2 novembre 2010
Dalla sopravvivenza alla vita molteplice. Una riflessione fenomenologica da MOCKBA.
Viviamo una doppia vita. Ce ne accorgiamo per caso, perche' non e' volontariamente che incorriamo nella negazione (cioe' la contraddizione) di se stessi.
Trovo giusto iniziare cosi', con una riflessione decisamente arbitraria il racconto dell'arrivo a Mosca.
L'alfabeto non aiuta affatto a comprendere questo popolo, che e' orientale piu' di quanto si pensi.
E come se non bastasse, al pomeriggio fa addirittura piu' freddo che al mattino.
Ho trascorso la giornata a fare foto all'architettura costruttivista, il fiore all'occhiello della capitale che volle innalzare la dittatura del proletariato. Tra palazzi grandi come villaggi non ho disdegnato di fotografare i piccioni che fanno compagnia a Dostojevski, le creature sub-umane a cui il museo di antropologia ha dedicato mezzibusti esposti sulle pareti esteriori, e pure gli omini che vendono le schedine del lotto nella Piazza Rossa.
All'ingresso del Cremlino sta una bella statua del maresciallo Zukhov, quello che ha condotto l'Armata Rossa a Berlino. Resti sparsi per la citta' ricordano la matrice ideologica del suo passato. Trovo esteticamente piacevoli i mosaici che decorano la stazione della metropolitana di Arbatskaya, dove si commemora l'inaugurazione di una gloriosa fabbrica dai protagonisti della rivoluzione.
Ma qui non posso dilungarmi sui particolari... ero partito con l'idea di scrivere un post su ben altro. Volevo parlare delle vite parallele che viviamo senza saperlo, ed ecco: si e' manifestato un fenomeno dissociativo, che mi porta a ragionare d'altro. Si potrebbe usare questo come esempio dell'incostanza, o meglio, della scarsa concentrazione come motivo scatenante della dissociazione degli io? Si cessa di essere se stessi, e si diventa altre persone (o meglio, si diventa altri perche' con altri ci immedesimiamo) soltanto perche' non siamo capaci di finire un discorso e piu' facile ci riesce cominciarne altri dieci (che molto probabilmente non saranno similmente conclusi, ma si ramificheranno in altri ragionamenti ancora) ?
Mi sento di rispondere in modo affermativo. Ma il motivo non puo' stare esclusivamente li'.
E' il rigore impostomi dalla scienza che mi obbliga a cercare un ulteriore approfondimento.
Siamo piu' persone dietro la stessa faccia e sotto la stessa pelle, ma e' troppo riduttivo sostenere che cio' dipenda solo dalla debolezza della volonta' che, intrinsecamente, rende costitutivamente pregnante gli argomenti morali che danno poi forma, vita e sostentamento al nostro modo di vedere il mondo, di vedere noi stessi nel mondo, dunque di vedere noi ("io") a confronto con gli altri in tutti i contesti della vita.
La fenomenologia degenera nella psichiatria, perche' la dimensione dell'io oscilla in maniera ambigua e spesso impercettibile sul confine della realta' e dell'irrealta'.
La pluralita' del vivere non e' compatibile con l'unicita' dell'io.
In futuro tornero' su questo argomento. Nel prossimo post, tuttavia, riprendero' il tema dell'ultimo post, in merito all'incontro con Ferraccio, che e' stato di grande aiuto per il superamento della condizione di "coscienza infelice" di fronte alla disoccupazione.
Tutti gli accenti sulle vocali, qui, purtroppo li ho messi cosi' perche' su questa tastiera russa le vocali accentate non ci sono.
Trovo giusto iniziare cosi', con una riflessione decisamente arbitraria il racconto dell'arrivo a Mosca.
L'alfabeto non aiuta affatto a comprendere questo popolo, che e' orientale piu' di quanto si pensi.
E come se non bastasse, al pomeriggio fa addirittura piu' freddo che al mattino.
Ho trascorso la giornata a fare foto all'architettura costruttivista, il fiore all'occhiello della capitale che volle innalzare la dittatura del proletariato. Tra palazzi grandi come villaggi non ho disdegnato di fotografare i piccioni che fanno compagnia a Dostojevski, le creature sub-umane a cui il museo di antropologia ha dedicato mezzibusti esposti sulle pareti esteriori, e pure gli omini che vendono le schedine del lotto nella Piazza Rossa.
All'ingresso del Cremlino sta una bella statua del maresciallo Zukhov, quello che ha condotto l'Armata Rossa a Berlino. Resti sparsi per la citta' ricordano la matrice ideologica del suo passato. Trovo esteticamente piacevoli i mosaici che decorano la stazione della metropolitana di Arbatskaya, dove si commemora l'inaugurazione di una gloriosa fabbrica dai protagonisti della rivoluzione.
Ma qui non posso dilungarmi sui particolari... ero partito con l'idea di scrivere un post su ben altro. Volevo parlare delle vite parallele che viviamo senza saperlo, ed ecco: si e' manifestato un fenomeno dissociativo, che mi porta a ragionare d'altro. Si potrebbe usare questo come esempio dell'incostanza, o meglio, della scarsa concentrazione come motivo scatenante della dissociazione degli io? Si cessa di essere se stessi, e si diventa altre persone (o meglio, si diventa altri perche' con altri ci immedesimiamo) soltanto perche' non siamo capaci di finire un discorso e piu' facile ci riesce cominciarne altri dieci (che molto probabilmente non saranno similmente conclusi, ma si ramificheranno in altri ragionamenti ancora) ?
Mi sento di rispondere in modo affermativo. Ma il motivo non puo' stare esclusivamente li'.
E' il rigore impostomi dalla scienza che mi obbliga a cercare un ulteriore approfondimento.
Siamo piu' persone dietro la stessa faccia e sotto la stessa pelle, ma e' troppo riduttivo sostenere che cio' dipenda solo dalla debolezza della volonta' che, intrinsecamente, rende costitutivamente pregnante gli argomenti morali che danno poi forma, vita e sostentamento al nostro modo di vedere il mondo, di vedere noi stessi nel mondo, dunque di vedere noi ("io") a confronto con gli altri in tutti i contesti della vita.
La fenomenologia degenera nella psichiatria, perche' la dimensione dell'io oscilla in maniera ambigua e spesso impercettibile sul confine della realta' e dell'irrealta'.
La pluralita' del vivere non e' compatibile con l'unicita' dell'io.
In futuro tornero' su questo argomento. Nel prossimo post, tuttavia, riprendero' il tema dell'ultimo post, in merito all'incontro con Ferraccio, che e' stato di grande aiuto per il superamento della condizione di "coscienza infelice" di fronte alla disoccupazione.
Tutti gli accenti sulle vocali, qui, purtroppo li ho messi cosi' perche' su questa tastiera russa le vocali accentate non ci sono.
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mercoledì 27 ottobre 2010
Rivolgimento d'attenzione su me stesso, quando l'umore cambia (in seguito alla costatazione che senza una raccomandazione non si va da nessuna parte).
Nell'ultimo post ho tematizzato un pensiero correlato al mio prossimo, breve, viaggio a Mosca.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.
La doccia fredda dell'Università di Trento mi obbliga adesso a "svegliarmi" da quel sonno dogmatico in cui ero assorto, e prendere atto delle esigenze impellenti della vita, cioè quelle che concernono la sopravvivenza. (Per la cronaca, a Trento concorrevo per un posto al dottorato di ricerca).
Queste cose urgenti sono: mangiare, bere, vestirsi. E per tutto serve il conquibus, e dunque un lavoro. Da qui in poi, tema delle mie ricerche fenomenologiche sarà la ricerca del lavoro, e a latere (ma solo a latere, perché sennò il lavoro non lo troverò mai) il mondo del lavoro in generale e in quanto tale.
Edmondo Husserl ha colpevolmente trascurato le difficoltà che sperimenta un giovane che ovunque trova porte sbarrate, per non parlare degli ostacoli burocratici che ne fiaccano l'entusiasmo e arrestano la corsa.
Riporto qui l'incontro che ho avuto pochi giorni fa con Emilio, il guardiano serale della Facoltà di Lettere. Mi ha rivelato che nella cooperativa per la quale lavora nessuno è entrato se non per conoscenza. "Conoscenza" non significa che è arrivato, si è presentato e si è fatto conoscere. Conoscenza significa che qualcuno lo ha conosciuto prima ancora che lui si facesse conoscere. Il mondo della vita (il Lebenswelt, per usare il termine amato dai fenomenologi) è perciò pregno e dato già costitutivamente di una costellazione di etichette e legami più o meno visibili che impongono una qualche gerarchia di favori e obblighi. Un dipendente suo collega, notoriamente psicolabile e autore di gesti volgari e nient'affatto professionali non può esser rimosso dall'impiego - mi dice il custode - perché è "intoccabile". Il mondo è pieno di intoccabili.
Un tempo solo i dirigenti e pochi privilegiati erano intoccabili. Oggi, a ben guardare, anche i custodi notturni di aule studio, gli addetti alla mensa, e forse gli operatori ecologici sono degli "intoccabili". La lezione che ne traggo è questa: senza una raccomandazione, si può aver il miglior curriculum ma si muore di fame.
Scopo di questo post non è fare una sterile lagnanza sul male del mondo. Lo scopo reale è anzi applicare il metodo di riduzione fenomenologica per comprendere la dinamica interna della coscienza dell'io, al termine di una simile esperienza cognitiva.
L'io ragiona e si vede isolato, così, virtualmente sottratto all'orizzonte intersoggettivo del noi. I problemi del noi non affliggono l'io, perché la sensibilità appartiene all'io e non può trovare completo rispecchiamento nella situazione del noi. Il noi è pur sempre un entità astratta, ottenuta mediante l'espoliazione delle particolarità differenzianti dei vari io. Solo a un livello avanzato di indifferenziazione si può pensare al noi come a un soggetto che vive una propria situazione esistenziale.
Nel prender coscienza di ciò, di tale stato in cui il soggetto è rimesso soltanto a se stesso, l'io percepisce di esser solo. In tale solitudine, in cui l'io è più o meno profondamente immerso, ha coscienza di essere qualcosa-per. Ossia, d'essere un'immagine; perché il mondo sociale ci conosce come immagine, e similmente il mondo si riflette a noi con tale immagine connessa ad altre immagini derivate (che sono pur sempre proiezioni della nostra coscienza). La coscienza tende a identificare l'io con un'immagine, che è più o meno definita nei contorni ma certamente fissa e coesa nel suo nucleo centrale.
La coscienza della solitudine, vissuta in una simile esperienza (quella dell'io che scopre che senza raccomandazione non si va da nessuna parte, intendo) contribuisce a render più acuto il sentimento del sé (cioé dell'io auto-riflesso) nella propria dimensione esistenziale (o esistentiva, per usare il termine eccessivamente tecnico di Husserl).
L'acuirsi di tale dimensione, di pari passo con la sua più viva coscienza, provoca il più netto distacco dall'identificazione dell'io col noi, e dunque il maggior distacco dalla dimensione sociale (e intersoggettiva) dell'io.
Possono darsi due conseguenze, a questa condizione esistenziale, che sono vincolate in maniera più o meno rigida al risultato della ricerca d'un lavoro (o di un altro tipo di collocazione esistenziale, ad esempio il dottorato di ricerca). Più avanti discuterò a parte dello sviluppo della coscienza dell'io di fronte al successo.
A fronte del risultato negativo (ossia l'io senza raccomandazione non trova collocazione e resta a grattarsi i coglioni), l'io accusa un conflitto profondo, ossia quello dato nella sua coscienza tra l'io quale immagine auto-riflessa e le capacità e aspirazioni personali che tale io si auto-connette in tale immagine, e il mondo (ossia l'immagine del mondo, pervenuta alla coscienza dell'io quale totalità costituita di rapporti determinati ed escludenti il tentativo di accesso dell'io).
Tale conflitto, più o meno profondo che sia, può degenerare fino ad assumere forme patologiche. A fronte di tale conflitto, manifesto nei termini di una lacerazione incolmabile col mondo (il Lebenswelt, ricordiamo, era visto già da Alfred Schutz come il mondo del lavoro), l'io reagisce normalmente in termini di reazione. Dovrei richiamare qui a un brillante studio di Armando Plebe, in cui la reazione è appunto vista come atto di ribellione dell'io, volto alla riappropriazione di una realtà esistenziale che il mondo invece gli nega.
L'io è qui cosciente di essere un'io isolato, ma la sua coscienza non è mai isolata.
La sua è una "coscienza infelice", negli stessi termini addotti da Hegel in altro verboso lessico. Si tratta infatti di una coscienza cosciente che - ripeto ancora una volta, e in modo perentorio visto che sono quasi le 18 e vorrei uscire a prendere il caffé - non ignora che senza una raccomandazione non andrà da nessuna parte.
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mercoledì 20 ottobre 2010
Il Cremlino è là che mi aspetta
Mi trovo adesso nella vasta e lussuosa hall di un resort turistico, piuttosto vicino a casa mia. Ho scoperto che posso connettermi a internet da qua, risparmiando dunque la benzina per arrivare a Pisa o a Livorno. Davanti a me ho ore spensierate per mettervi al corrente di quel che l'autunno porta nei luoghi di mare; metafore d'incertezza, dubbi pleonastici sul domani che convalida lo ieri, freddate dovute a un abbigliamento esistenziale inadeguato, e poi cozze senza perla, livree d'argento, parole sconclusionate, discorsi ovvi.
Sto parlando in chat con Fernanda, che è stata a Mosca poco tempo fa. Mi suggerisce alcune destinazioni che dovrei includere nel mio vagare. Ma il tempo è poco: solo una settimana mi tratterrò in quella terra fredda che vanta una tradizione tanto lontana dal nostro Occidente. Intanto, il freddo è arrivato fin qui.
Mi viene da pensare che forse lo stesso freddo che sento in questa hall, vicino casa e vicino alla spiaggia tirrenica, sia una presentificazione (termine di cui i fenomenologi tedeschi hanno abusato, usandolo nella loro lingua fin troppo tecnicistica) del freddo russo, in cui presto verrò a trovarmi.
Vi è certamente una spiegazione scientifica, che i potenti strumenti modernissimi di rilevazione meteorologica possono fornire... Ma noi, che siamo eredi di una tradizione stilnovista, eredi di Dante e di Boccaccio, del Petrarca e dell'Ariosto, di una tradizione insomma che non ha nulla a che spartire col razionalismo europeo e con le sue escrescenze giacobine che nulla hanno dimostrato se non le inevitabili derivazioni violentemente irrazionali del culto della ragione, ecco, noi dobbiamo rifiutare tale scientismo che nega la poesia, e riaffermare le metafore potenti che danno un significato più profondo alle stagioni, come pure alle trasformazioni che osserviamo e percepiamo in natura, ai colori che si sfumano, al freddo e al caldo.
Che altro dire con ciò? Il tempo mi ricorda che i cinque euri che ho pagato erano relativi solo a tre ore di connessione internet. Il tempo, come è dunque evidente, rinvia a un medio che offre di sé una nuova interpretazione di rimando.
Il tempo: forse una metafora per circoscriverlo non c'è. Ma qui si parla d'altro, e cioé di quest'esperienza russa che m'attende, che in qualche maniera segna un limite, un punto di confine, e forse la conclusione del viaggio esistenziale che ho iniziato ormai molto tempo fa - già molto prima, probabilmente, del mio controverso soggiorno maltese.
Dietro alle banalità ci stanno cose che meritano la nostra attenzione, forse più di quanto noi ci si renda conto. Io credo fermamente che dietro all'asserzione "non esistono più le mezze stagioni" si celi un significato che si è perduto in età remote, forse per colpa di una retorica volgare e indegnamente filologica.
Questo discorso, che erroneamente mi svia al di fuori dell'orbita russa, è pur sempre pertinente al tema del blog, ossia la fenomenologia delle cose belle, che sono pur sempre belle perché significative.
Ma sul tema del limite prima o poi dovrò svolgere un'indagine approfondita, perché la sua ricchezza di sfumature non può certo esaurirsi in una pagina.
Marzio Valdambrini
Sto parlando in chat con Fernanda, che è stata a Mosca poco tempo fa. Mi suggerisce alcune destinazioni che dovrei includere nel mio vagare. Ma il tempo è poco: solo una settimana mi tratterrò in quella terra fredda che vanta una tradizione tanto lontana dal nostro Occidente. Intanto, il freddo è arrivato fin qui.
Mi viene da pensare che forse lo stesso freddo che sento in questa hall, vicino casa e vicino alla spiaggia tirrenica, sia una presentificazione (termine di cui i fenomenologi tedeschi hanno abusato, usandolo nella loro lingua fin troppo tecnicistica) del freddo russo, in cui presto verrò a trovarmi.
Vi è certamente una spiegazione scientifica, che i potenti strumenti modernissimi di rilevazione meteorologica possono fornire... Ma noi, che siamo eredi di una tradizione stilnovista, eredi di Dante e di Boccaccio, del Petrarca e dell'Ariosto, di una tradizione insomma che non ha nulla a che spartire col razionalismo europeo e con le sue escrescenze giacobine che nulla hanno dimostrato se non le inevitabili derivazioni violentemente irrazionali del culto della ragione, ecco, noi dobbiamo rifiutare tale scientismo che nega la poesia, e riaffermare le metafore potenti che danno un significato più profondo alle stagioni, come pure alle trasformazioni che osserviamo e percepiamo in natura, ai colori che si sfumano, al freddo e al caldo.
Che altro dire con ciò? Il tempo mi ricorda che i cinque euri che ho pagato erano relativi solo a tre ore di connessione internet. Il tempo, come è dunque evidente, rinvia a un medio che offre di sé una nuova interpretazione di rimando.
Il tempo: forse una metafora per circoscriverlo non c'è. Ma qui si parla d'altro, e cioé di quest'esperienza russa che m'attende, che in qualche maniera segna un limite, un punto di confine, e forse la conclusione del viaggio esistenziale che ho iniziato ormai molto tempo fa - già molto prima, probabilmente, del mio controverso soggiorno maltese.
Dietro alle banalità ci stanno cose che meritano la nostra attenzione, forse più di quanto noi ci si renda conto. Io credo fermamente che dietro all'asserzione "non esistono più le mezze stagioni" si celi un significato che si è perduto in età remote, forse per colpa di una retorica volgare e indegnamente filologica.
Questo discorso, che erroneamente mi svia al di fuori dell'orbita russa, è pur sempre pertinente al tema del blog, ossia la fenomenologia delle cose belle, che sono pur sempre belle perché significative.
Ma sul tema del limite prima o poi dovrò svolgere un'indagine approfondita, perché la sua ricchezza di sfumature non può certo esaurirsi in una pagina.
Marzio Valdambrini
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giovedì 7 ottobre 2010
Il presente è ancora qui
Le contingenze della vita (e pure le necessità, a dire il vero, nel caso si riescano mai a distinguere dalle prime) mi hanno impedito di scrivere posts sul blog per un bel lasso di tempo. In sostanza, non è che siano accadute cose significative... Nulla insomma che meriti un aggiornamento qui della mia situazione esistenziale. Vorrei dunque cogliere l'occasione (prima che la biblioteca dei Bottini dell'Olio chiuda) per congiungere due momenti diversi, che sono intercorsi a breve distanza di tempo l'uno dall'altro. Nello specifico, si tratta di un pensiero che m'è comparso ieri sera e un altro, ch'è fatto di immagini e sensazioni e non di parole, che ho vissuto una quarantina di minuti fa.
L'altra sera stavo tornando a casa, e mi è gorgogliato in testa un discorso che sentii dire da qualcuno. Non so bene se si tratta delle parole del maestro Gurdjeff, secondo il quale la morte per l'uomo civile rappresenta un grande enigma, ed è incomprensibile nella stessa e identica misura in cui la vita è incomprensibile. Si tratta sempre della difficoltà di dare un senso alle cose. Attraverso la concentrazione, e la focalizzazione dell'attenzione sulla fiamma di una candela sono riuscito a togliermi l'affanno di tanti pensieri estranei; purtroppo, devo dire che riguardo all'auto-osservazione sono ancora troppo deficitario. Capisco i miei difetti, ma non riesco a intervenire con efficacia (e forse con sufficiente decisione) per porci rimedio. Ma il lavoro che faccio su di me, almeno, mi porta come risultato il trovare risposta a certi interrogativi. Adesso non posso ancora dare una risposta a ogni domanda, non sono capace di dare il senso a tutto, ma certo posso dare il senso e comprendere il significato di esperienze e cose che un tempo vivevo e accettavo passivamente, senza ragionarci sensibilmente e perciò senza neppure riconoscerne il senso.
Il secondo momento che vi collego diacronicamente è quello sperimentato oggi pomeriggio, passate le 18, quando sono uscito di casa per venire a Livorno. C'era un cielo limpido, con un sole radioso che faceva sembrare questo giorno come un pomeriggio d'estate. Venendo fin qua in motorino ho sentito l'aria fresca, la brezza che arriva da qualche parte e che solleva il salmastro della marina. Lasciato il motorino vicino alla Bodeguita, il giorno era talmente bello che ho deciso di fermarmi in un bar, per prendere un budino di riso (c'era scritto che era al semolino, ma a me sembrava fosse riso). Senza affannarmi per il domani, l'oggi e lo ieri, e con tutte le preoccupazioni che questi momenti effimeri si portano dietro (perché si tratta realmente di momenti effimeri: siamo inseriti in un flusso di novità continua, che non possiamo fermare e che giustamente non si lascia interrompere) ho gustato dunque quel budino, dopodiché ho ordinato un cappuccino bello schiumoso. Ho sfogliato il quotidiano, e ho provato ribrezzo per un fatto di cronaca particolarmente cruento. Senza farmene carico, sono uscito e ho rivisto il cielo al tramonto. L'aria aveva lo stesso profumo, il silenzio era ancora poetico, pur con tutto quel che nel mondo accade... Ogni momento dovrebbe esser vissuto come una realtà a sé stante. Credo che soltanto in questa maniera potremmo riscoprirci come persone in via di cambiamento, d'evoluzione in cammino verso una méta che noi stessi siamo in grado di decidere. Se non si riesce ad esser padroni di sé nei momenti di tranquillità, come potremmo esserlo nei frangenti più agitati o drammatici della vita?
L'altra sera stavo tornando a casa, e mi è gorgogliato in testa un discorso che sentii dire da qualcuno. Non so bene se si tratta delle parole del maestro Gurdjeff, secondo il quale la morte per l'uomo civile rappresenta un grande enigma, ed è incomprensibile nella stessa e identica misura in cui la vita è incomprensibile. Si tratta sempre della difficoltà di dare un senso alle cose. Attraverso la concentrazione, e la focalizzazione dell'attenzione sulla fiamma di una candela sono riuscito a togliermi l'affanno di tanti pensieri estranei; purtroppo, devo dire che riguardo all'auto-osservazione sono ancora troppo deficitario. Capisco i miei difetti, ma non riesco a intervenire con efficacia (e forse con sufficiente decisione) per porci rimedio. Ma il lavoro che faccio su di me, almeno, mi porta come risultato il trovare risposta a certi interrogativi. Adesso non posso ancora dare una risposta a ogni domanda, non sono capace di dare il senso a tutto, ma certo posso dare il senso e comprendere il significato di esperienze e cose che un tempo vivevo e accettavo passivamente, senza ragionarci sensibilmente e perciò senza neppure riconoscerne il senso.
Il secondo momento che vi collego diacronicamente è quello sperimentato oggi pomeriggio, passate le 18, quando sono uscito di casa per venire a Livorno. C'era un cielo limpido, con un sole radioso che faceva sembrare questo giorno come un pomeriggio d'estate. Venendo fin qua in motorino ho sentito l'aria fresca, la brezza che arriva da qualche parte e che solleva il salmastro della marina. Lasciato il motorino vicino alla Bodeguita, il giorno era talmente bello che ho deciso di fermarmi in un bar, per prendere un budino di riso (c'era scritto che era al semolino, ma a me sembrava fosse riso). Senza affannarmi per il domani, l'oggi e lo ieri, e con tutte le preoccupazioni che questi momenti effimeri si portano dietro (perché si tratta realmente di momenti effimeri: siamo inseriti in un flusso di novità continua, che non possiamo fermare e che giustamente non si lascia interrompere) ho gustato dunque quel budino, dopodiché ho ordinato un cappuccino bello schiumoso. Ho sfogliato il quotidiano, e ho provato ribrezzo per un fatto di cronaca particolarmente cruento. Senza farmene carico, sono uscito e ho rivisto il cielo al tramonto. L'aria aveva lo stesso profumo, il silenzio era ancora poetico, pur con tutto quel che nel mondo accade... Ogni momento dovrebbe esser vissuto come una realtà a sé stante. Credo che soltanto in questa maniera potremmo riscoprirci come persone in via di cambiamento, d'evoluzione in cammino verso una méta che noi stessi siamo in grado di decidere. Se non si riesce ad esser padroni di sé nei momenti di tranquillità, come potremmo esserlo nei frangenti più agitati o drammatici della vita?
domenica 12 settembre 2010
Il domani è in ritardo
La vita, con le sue divaricazioni impreviste (pur se prevedibili, con la logica della nottola di Minerva) mi ha tenuto lontano dall'aggiornamento del blog per un lasso di dieci giorni. Questo tempo - lo confesso a me stesso - non l'ho impiegato in maniera particolarmente proficua. Certo: ho preparato il progetto di ricerca (in modo un po' abborracciato, è vero, e pure con errori ortografici di cui ho vergogna) con cui mi presenterò al concorso per il dottorato tridentino, ma dopotutto c'è un senso di nonsocché, di insoddisfazione, che mi fa dubitare della qualità degli ultimi dieci giorni.
Epicuro mi invita a riflettere sul fatto che non importa vivere di più, quanto invece conta vivere meglio il tempo che si ha. Non riesco e forse non riuscirò mai ad essere epicureo fino in fondo, lo so bene.
Nessun movimento di auto-coscienza può abbassarmi al punto di dubitare delle caratteristiche profonde del mio essere; perciò voglio parlare d'altro, questa sera, e magari tornerò in futuro su quanto ora si lascia in sospeso.
Il tema del post scaturisce da una questione che mi ha posto Caterina Cavaliere, alcuni giorni fa su Facebook.
Costei mi ha scritto: "Dimmi, Marzio, siamo forse uomini soli?".
Sull'istante, non ho trovato cosa più giusta che risponderle usando la canzone dei Pooh, che certo manifesta il sentimento di impotenza che è figlio del tempo, col risvolto patetico che le forme odierne d'espressione offrono alle questioni umane, ridicole o serissime che siano. Dopo un paio di giorni, in cui ci ho pensato pochissimo ma in compenso ho letto pagine che mi hanno distratto, credo di aver trovato la via per arrivare a comprendere il problema in un orizzonte più vasto. Ero partito dalla supposizione che i classici del pensiero siano classici perché non perdono di attualità.
Ho cercato perciò una risposta in Eric Voegelin, ultimo grande filosofo della politica. La sua disamina dei movimenti gnostici moderni, quali sarebbero le ideologie che hanno imposto i propri idoli a discapito della vecchia e corruttibile tradizione, è brillante è geniale. Le sue accuse infuocate contro Marx, Nietzsche (gli manca Freud, purtroppo), che lui chiama "truffatori intellettuali", contribuiscono a concludere lo smascheramento di questi ciabattoni; smascheramento che già da un po' di tempo è in corso. Secondo Voegelin (Cfr. Il mito del mondo nuovo) è assai significativo che il pensiero greco non possa considerare una fine diversa, per Prometeo, che la condanna irrefutabile di Zeus, e il dileggiamento di contorno subito da Ermete. Prometeo ha trasgredito le leggi dell'ordine cosmico e sociale, e perciò subisce le conseguenze prescritte dalla Giustizia (che è con la maiuscola, perché l'unica giustizia che goda di una legittimità superiore all'umano). Alla base del movimento gnostico di cui Marx è invece l'artefice, vi è è il trionfo di Prometeo. Quest'ultimo riesce nel suo progetto sovversivo, frega il cosmo e gli déi, e finisce per distruggere un mondo che deve rifondare nuove istituzioni. Nasce così una nuova religione, che è religione dell'uomo, anch'essa con una episteme, con un proprio "divieto di fare domande", con delle verità che si fanno dogma, etcetera, con tutto quel che costituisce una vera e propria religione secolare.
Il marxismo, una volta divenuto tale, si crea la sua bella fetta di fanatici, di martiri, di esegeti ortodossi o eretici, un movimento politico che si fa totalitarismo e tutta la barbarie che segue. (E poi, infine, seguono dei coglioni che dicono che il povero Karl Marx non c'entrava nulla e che è stato frainteso).
Congiungiamo la questione degli uomini soli a questi illustri filosofi, Marx e Nietzsche. Non trovo risposta nel pensiero di questi autori, pur facendo uno sforzo. Forse, penso, questi non sono nemmeno dei classici. Che classici sono, se la storia condanna i loro devoti interpreti, e se non sono utili a insegnare qualcosa a quei giovani che nel mondo post-tutto brancolano nelle tenebre più oscure? Dobbiamo rottamarli (e con loro anche Comte e Freud), e seguire Voegelin nell'opera di ripensare la filosofia, e se si vuole, la storia della filosofia.
La dobbiamo ripensare come disciplina di auto-ordinamento del proprio io interiore. Soltanto così saremo padroni del proprio sé, saremo consci del significato del nostro essere-nel-mondo (termine heideggeriano) del nostro essere-soddisfatti (termine non heideggeriano), del nostro essere-sé stessi (termine forse non heideggeriano). La coscienza dell'essere soli può scoprirsi in questa maniera.
Certo, alla domanda di Caterina rispondo: siamo uomini soli, perché la vita ci vede nella veste di individuali. Siamo nati da soli e moriremo da soli. Forse vivremo soli a sprazzi, o non ce ne accorgeremo perché avremo la televisione accesa che ci illude di essere in compagnia. O magari sarà qualcuno che ci parla ma non ci ascolta a darci l'illusione di essere in compagnia. Ma in tutti questi casi, è chiara una cosa: che la questione della solitudine dipenderà sempre dalla coscienza che di essa si ha.
E' lo scarso dominio che l'uomo d'oggi ha del proprio sé, a causare l'insopportabilità della solitudine.
Riconoscerlo, tuttavia, è segno di sensibilità. Perciò è meglio accorgersi di esser soli anche quando si è circondati da persone distanti. (Ho cercato di tematizzare questo in un discorso del Cliente, ma poi ho scoperto di aver scritto male). Riscoprire il proprio sé porta una conclusione che apre al suo rovesciamento: scoprirsi soli nell'aspetto in cui l'individuo si rispecchia nel generale, comporta l'immediato scoprirsi raccolti in una condizione che trascende l'individualità, che ci incorpora in un disegno vasto e superiore, nel quale non esiste la solitudine che il semplice individuo conosce. Vi è qualcosa dello stesso passaggio che l'antica saggezza induista definisce come il movimento di congiunzione-immedesimazione tra Brahman e Atman.
Sono adesso le ore 1 di notte, penso di riprendere con più lucidità il discorso prossimamente, ma nel frattempo vado a stendere la biancheria appena uscita dalla lavatrice.
Epicuro mi invita a riflettere sul fatto che non importa vivere di più, quanto invece conta vivere meglio il tempo che si ha. Non riesco e forse non riuscirò mai ad essere epicureo fino in fondo, lo so bene.
Nessun movimento di auto-coscienza può abbassarmi al punto di dubitare delle caratteristiche profonde del mio essere; perciò voglio parlare d'altro, questa sera, e magari tornerò in futuro su quanto ora si lascia in sospeso.
Il tema del post scaturisce da una questione che mi ha posto Caterina Cavaliere, alcuni giorni fa su Facebook.
Costei mi ha scritto: "Dimmi, Marzio, siamo forse uomini soli?".
Sull'istante, non ho trovato cosa più giusta che risponderle usando la canzone dei Pooh, che certo manifesta il sentimento di impotenza che è figlio del tempo, col risvolto patetico che le forme odierne d'espressione offrono alle questioni umane, ridicole o serissime che siano. Dopo un paio di giorni, in cui ci ho pensato pochissimo ma in compenso ho letto pagine che mi hanno distratto, credo di aver trovato la via per arrivare a comprendere il problema in un orizzonte più vasto. Ero partito dalla supposizione che i classici del pensiero siano classici perché non perdono di attualità.
Ho cercato perciò una risposta in Eric Voegelin, ultimo grande filosofo della politica. La sua disamina dei movimenti gnostici moderni, quali sarebbero le ideologie che hanno imposto i propri idoli a discapito della vecchia e corruttibile tradizione, è brillante è geniale. Le sue accuse infuocate contro Marx, Nietzsche (gli manca Freud, purtroppo), che lui chiama "truffatori intellettuali", contribuiscono a concludere lo smascheramento di questi ciabattoni; smascheramento che già da un po' di tempo è in corso. Secondo Voegelin (Cfr. Il mito del mondo nuovo) è assai significativo che il pensiero greco non possa considerare una fine diversa, per Prometeo, che la condanna irrefutabile di Zeus, e il dileggiamento di contorno subito da Ermete. Prometeo ha trasgredito le leggi dell'ordine cosmico e sociale, e perciò subisce le conseguenze prescritte dalla Giustizia (che è con la maiuscola, perché l'unica giustizia che goda di una legittimità superiore all'umano). Alla base del movimento gnostico di cui Marx è invece l'artefice, vi è è il trionfo di Prometeo. Quest'ultimo riesce nel suo progetto sovversivo, frega il cosmo e gli déi, e finisce per distruggere un mondo che deve rifondare nuove istituzioni. Nasce così una nuova religione, che è religione dell'uomo, anch'essa con una episteme, con un proprio "divieto di fare domande", con delle verità che si fanno dogma, etcetera, con tutto quel che costituisce una vera e propria religione secolare.
Il marxismo, una volta divenuto tale, si crea la sua bella fetta di fanatici, di martiri, di esegeti ortodossi o eretici, un movimento politico che si fa totalitarismo e tutta la barbarie che segue. (E poi, infine, seguono dei coglioni che dicono che il povero Karl Marx non c'entrava nulla e che è stato frainteso).
Congiungiamo la questione degli uomini soli a questi illustri filosofi, Marx e Nietzsche. Non trovo risposta nel pensiero di questi autori, pur facendo uno sforzo. Forse, penso, questi non sono nemmeno dei classici. Che classici sono, se la storia condanna i loro devoti interpreti, e se non sono utili a insegnare qualcosa a quei giovani che nel mondo post-tutto brancolano nelle tenebre più oscure? Dobbiamo rottamarli (e con loro anche Comte e Freud), e seguire Voegelin nell'opera di ripensare la filosofia, e se si vuole, la storia della filosofia.
La dobbiamo ripensare come disciplina di auto-ordinamento del proprio io interiore. Soltanto così saremo padroni del proprio sé, saremo consci del significato del nostro essere-nel-mondo (termine heideggeriano) del nostro essere-soddisfatti (termine non heideggeriano), del nostro essere-sé stessi (termine forse non heideggeriano). La coscienza dell'essere soli può scoprirsi in questa maniera.
Certo, alla domanda di Caterina rispondo: siamo uomini soli, perché la vita ci vede nella veste di individuali. Siamo nati da soli e moriremo da soli. Forse vivremo soli a sprazzi, o non ce ne accorgeremo perché avremo la televisione accesa che ci illude di essere in compagnia. O magari sarà qualcuno che ci parla ma non ci ascolta a darci l'illusione di essere in compagnia. Ma in tutti questi casi, è chiara una cosa: che la questione della solitudine dipenderà sempre dalla coscienza che di essa si ha.
E' lo scarso dominio che l'uomo d'oggi ha del proprio sé, a causare l'insopportabilità della solitudine.
Riconoscerlo, tuttavia, è segno di sensibilità. Perciò è meglio accorgersi di esser soli anche quando si è circondati da persone distanti. (Ho cercato di tematizzare questo in un discorso del Cliente, ma poi ho scoperto di aver scritto male). Riscoprire il proprio sé porta una conclusione che apre al suo rovesciamento: scoprirsi soli nell'aspetto in cui l'individuo si rispecchia nel generale, comporta l'immediato scoprirsi raccolti in una condizione che trascende l'individualità, che ci incorpora in un disegno vasto e superiore, nel quale non esiste la solitudine che il semplice individuo conosce. Vi è qualcosa dello stesso passaggio che l'antica saggezza induista definisce come il movimento di congiunzione-immedesimazione tra Brahman e Atman.
Sono adesso le ore 1 di notte, penso di riprendere con più lucidità il discorso prossimamente, ma nel frattempo vado a stendere la biancheria appena uscita dalla lavatrice.
lunedì 30 agosto 2010
Il post-moderno si chiama Gheddafi
Alla vigilia della partenza dei calabresi, che dicono addio a quest'isola remota che è stata teatro di una lunga estate, ha avuto luogo anche un evento di portata mediatica straordinaria.
Il presidente Berlusconi ha ospitato il colonnello Gheddafi, personaggio potente e noto per la discutibile sobrietà di abbigliamento, per un evento che (secondo alcuni) stabilisce un nuovo capitolo della storia d'Italia.
L'Italia chiede scusa per la barbarie del colonialismo e sigilla con la Libia un patto di amicizia. Da qui la giornata dedicata a un così grande evento: hanno sfilato la cavalleria dei carabinieri, alla presenza delle autorità italiane, e pure l'esotica cavalleria berbera. Il significato simbolico di tutto non si discute; non è questo che ci muove a scrivere un post per il blog.
Il movente dell'interesse, per noi, è nientemeno che il look esposto dal sempre giovane colonnello e leader libico. Vorremmo discutere del suo look, accostandolo pure al messaggio ideologico che l'uomo esporta, e che ne diviene un ineludibile supporto e metro di riferimento.
Abbiamo visto sfilare il colonnello in più vesti; sul carro guidato da un'auriga, era eretto col braccio innalzato verso la sua folla, coperto da una lunga tunica bianca che gli dava l'aspetto nobile di un console o di un aulico condottiero romano dell'antichità. In lui abbiamo rivisto uno splendore bizantino.
Poco dopo, forse per trovarsi adeguato al clima della sera, lo abbiamo visto indossare una giacca di pelle di qualcosa, forse cammello, con un cinturone in vita che gli conferiva l'aspetto di un guerriero. Complice il capello scuro e ricciolo, ci è tornato alla memoria Russell Crowe, il Gladiatore.
Vivendo a Malta, che è terra prediletta dall'immigrazione libica alla spicciolata, sappiamo che nessun libico ha gusti tanto raffinati e ricercati come quelli del leader Gheddafi.
Se analizziamo con attenzione la cura maniacale che l'uomo dedica all'immagine, forse comprendiamo qualcosa del post-moderno. O se non riusciamo a spingerci al nocciolo dell'argomento, di certo lo studio del particolare ci illustra qualche nuova proprietà del fenomeno moderno estetico in questione. (Perché, si crede con ogni ragione pure inconfutabile, che il post-moderno sia perfettamente inscritto nella modernità, e pure sia in essa prefigurato e parte costituente.
Dicevamo che l'ideologia resa esplicita dall'uomo è una misura del significato profondo della sua figurazione estetica. L'uomo dice a una platea di duecento hostess: "Convertitevi, figliuole. Facciamo che l'Islam sia la relgione d'Europa".
Un pensiero del genere, in quest'epoca alquanto secolare [presto scriverò un post appost-a su Charles Taylor, che ha pesantemente ingombrato il mio agosto] non può non suonare bizzarro. Le chiese si svuotano, ma già tale fenomeno è l'ultimo anello di un fenomeno che ha preso le mosse da lontano: la gente ha smesso di credere, quando l'opzione della non-credenza (o della credenza fai-da-te) ha iniziato ad apparire una via altamente preferibile, in quanto più pratica e utile in termini di razionalità economica finale.
Ove la libertà sembra mai sufficiente, dove si trova ancora qualcosa di oppressivo o repressivo contro cui lottare, ci giunge questa voce dell'Islam come religione d'Europa.
Pensando con un'orecchio a Taylor (esatto, pensando con un orecchio), potremmo vedere il sopravvenire dell'Islam sull'Europa come appunto una cura all'imbarbarimento degli uomini post-civilizzati, alla perdita di punti di riferimento, al casino insopportabile degli immaginari sociali contemporanei.
Ma se invece pensiamo con un occhio all'aspetto filo-tradizionale del colonnello, e subito lo leghiamo all'ideologia, dobbiamo renderci conto del vero significato di cosa è normalmente chiamato "post-moderno".
Lo stile del colonnello è senza tempo; in lui rivivono varietà di tendenze, antiche e primitive, come pure moderne e contemporanee, che lo rendono un soggetto estraneo alle categorie sociali che riconosciamo (e così pure conosciamo, siamo capaci di capire) nel mondo occidentale. Il nostro mondo per noi è familiare, ed anzi, diremmo citando (scadendo nella banalizzazione) Wittgenstein, che il nostro mondo è l'unico mondo che ci sia anche accessibile. Qui siamo capaci di riconoscere l'estraneita': anche di fronte a gente che parla idiomi lontanissimi, nel mondo occidentale riusciamo a capirci se pensiamo di far parte di un'epoca storica che è unica, che ci vede tutti compresenti.
Lo stile del colonnello è senza tempo, e soprattutto è forgiato come l'originale mélange di forme che di originale non hanno nulla. Gli occhiali da sole che l'uomo indossa si comprano in qualunque negozio d'ottica; la sua tunica può esser opera di un sarto, ma pure la possiamo ricreare se usiamo un lenzuolo. Quando indossa la veste militare, la quantità di decorazioni e medaglie (che si è conferito da solo) risulta eccessiva: lo sfarzo non risulta indice di un carattere spiritualmente aristocratico.
Che indicazioni traiamo del post-moderno, dunque, osservando il colonnello Gheddafi? Potremmo dire: è il superamento della periodizzazione, così come l'estinzione di qualunque ordine di categorie. L'originalità ne è abolita, e il nuovo significato della parola consiste nell'uso originale che di qualunque cosa oggi si fa.
C'è un ritorno continuo alla tradizione, al passato, e pure una propensione a estendere il passato in un futuro che si vuole luminoso e promettente. Eric Voegelin avrebbe aggiunto qui la peculiarità individuata in tanti moti rivoluzionari e pure nei movimenti politici e culturali più pervasivi e radicati: l'immanentizzazione dell'eschaton, quel che rende l'ideologia una vera e propria religione. Ma il ritorno alla tradizione è fin troppo fuorviante; il messaggio religioso e politico del leader libico risulta fin troppo debilitato dalle scelte di guardaroba compiute da Gheddafi.
Vorremmo trarre da cio' alcune considerazioni approfondite sull'essenza del fenomeno conosciuto come 'post-moderno', ma il luogo peculiare per il discorso non sembra il blog.
La visita di Muammar Gheddafi in Italia, come abbiamo detto all'inizio, è avvenuta in concomitanza della partenza degli amici calabresi. Devo spendere qualche parola per questi giovani stagisti (anzi, ormai ex-stagisti, visto che hanno concluso la loro brillante esperienza e gia' hanno fatto ritorno alla vita normale).
Non dubitiamo che Malta abbia costituito un capitolo importante della loro vita. Certamente Pasquale, Serafino, Emilio, Antonio e Bina non dimenticheranno i tre mesi trascorsi all'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb. Non dimenticheranno la strada che va dalla fermata dell'autobus fino all'appartamento; non dimenticheranno poi il tragitto che compie l'autobus che da Msida va fino a Paceville. Forse non dimenticheranno nemmeno il casino di adolescenti in quel viottolo che serpeggia nei locali di divertimento notturno, in cui spesso si sono avventurati gia' ebbri. Facciamo i migliori auguri a questi giovani calabresi, con l'augurio che il ritorno alla vita normale e ordinaria non rappresenti una ricaduta nella vita piatta, convulsa, di labili soddisfazioni. Sicuramente questi giovani hanno il futuro davanti. L'esperienza dello stage ha insegnato loro cose importanti: la principale, forse, è che fare uno stage non serve a molto.
Ma in definitiva (come gia' abbiamo argomentato in tante occasioni) forse non esistono le perdite di tempo. Percio', va intesa questa avventura come un'occasione che a tutti è stata data per incontrarci e divertirci insieme. "Chi vuol esser lieto sia, del domani non v'è certezza". E questa digressione sul tempo profano (dunque vuoto) passato a Msida riporta all'estetica della vita post-moderna che, dobbiamo sottolineare, è ancora una volta coerente col tema del blog, che tratta nientemeno che del meraviglioso fenomeno delle cose belle.
Marzio Valdambrini - marzio19@yahoo.it
Il presidente Berlusconi ha ospitato il colonnello Gheddafi, personaggio potente e noto per la discutibile sobrietà di abbigliamento, per un evento che (secondo alcuni) stabilisce un nuovo capitolo della storia d'Italia.
L'Italia chiede scusa per la barbarie del colonialismo e sigilla con la Libia un patto di amicizia. Da qui la giornata dedicata a un così grande evento: hanno sfilato la cavalleria dei carabinieri, alla presenza delle autorità italiane, e pure l'esotica cavalleria berbera. Il significato simbolico di tutto non si discute; non è questo che ci muove a scrivere un post per il blog.
Il movente dell'interesse, per noi, è nientemeno che il look esposto dal sempre giovane colonnello e leader libico. Vorremmo discutere del suo look, accostandolo pure al messaggio ideologico che l'uomo esporta, e che ne diviene un ineludibile supporto e metro di riferimento.
Abbiamo visto sfilare il colonnello in più vesti; sul carro guidato da un'auriga, era eretto col braccio innalzato verso la sua folla, coperto da una lunga tunica bianca che gli dava l'aspetto nobile di un console o di un aulico condottiero romano dell'antichità. In lui abbiamo rivisto uno splendore bizantino.
Poco dopo, forse per trovarsi adeguato al clima della sera, lo abbiamo visto indossare una giacca di pelle di qualcosa, forse cammello, con un cinturone in vita che gli conferiva l'aspetto di un guerriero. Complice il capello scuro e ricciolo, ci è tornato alla memoria Russell Crowe, il Gladiatore.
Vivendo a Malta, che è terra prediletta dall'immigrazione libica alla spicciolata, sappiamo che nessun libico ha gusti tanto raffinati e ricercati come quelli del leader Gheddafi.
Se analizziamo con attenzione la cura maniacale che l'uomo dedica all'immagine, forse comprendiamo qualcosa del post-moderno. O se non riusciamo a spingerci al nocciolo dell'argomento, di certo lo studio del particolare ci illustra qualche nuova proprietà del fenomeno moderno estetico in questione. (Perché, si crede con ogni ragione pure inconfutabile, che il post-moderno sia perfettamente inscritto nella modernità, e pure sia in essa prefigurato e parte costituente.
Dicevamo che l'ideologia resa esplicita dall'uomo è una misura del significato profondo della sua figurazione estetica. L'uomo dice a una platea di duecento hostess: "Convertitevi, figliuole. Facciamo che l'Islam sia la relgione d'Europa".
Un pensiero del genere, in quest'epoca alquanto secolare [presto scriverò un post appost-a su Charles Taylor, che ha pesantemente ingombrato il mio agosto] non può non suonare bizzarro. Le chiese si svuotano, ma già tale fenomeno è l'ultimo anello di un fenomeno che ha preso le mosse da lontano: la gente ha smesso di credere, quando l'opzione della non-credenza (o della credenza fai-da-te) ha iniziato ad apparire una via altamente preferibile, in quanto più pratica e utile in termini di razionalità economica finale.
Ove la libertà sembra mai sufficiente, dove si trova ancora qualcosa di oppressivo o repressivo contro cui lottare, ci giunge questa voce dell'Islam come religione d'Europa.
Pensando con un'orecchio a Taylor (esatto, pensando con un orecchio), potremmo vedere il sopravvenire dell'Islam sull'Europa come appunto una cura all'imbarbarimento degli uomini post-civilizzati, alla perdita di punti di riferimento, al casino insopportabile degli immaginari sociali contemporanei.
Ma se invece pensiamo con un occhio all'aspetto filo-tradizionale del colonnello, e subito lo leghiamo all'ideologia, dobbiamo renderci conto del vero significato di cosa è normalmente chiamato "post-moderno".
Lo stile del colonnello è senza tempo; in lui rivivono varietà di tendenze, antiche e primitive, come pure moderne e contemporanee, che lo rendono un soggetto estraneo alle categorie sociali che riconosciamo (e così pure conosciamo, siamo capaci di capire) nel mondo occidentale. Il nostro mondo per noi è familiare, ed anzi, diremmo citando (scadendo nella banalizzazione) Wittgenstein, che il nostro mondo è l'unico mondo che ci sia anche accessibile. Qui siamo capaci di riconoscere l'estraneita': anche di fronte a gente che parla idiomi lontanissimi, nel mondo occidentale riusciamo a capirci se pensiamo di far parte di un'epoca storica che è unica, che ci vede tutti compresenti.
Lo stile del colonnello è senza tempo, e soprattutto è forgiato come l'originale mélange di forme che di originale non hanno nulla. Gli occhiali da sole che l'uomo indossa si comprano in qualunque negozio d'ottica; la sua tunica può esser opera di un sarto, ma pure la possiamo ricreare se usiamo un lenzuolo. Quando indossa la veste militare, la quantità di decorazioni e medaglie (che si è conferito da solo) risulta eccessiva: lo sfarzo non risulta indice di un carattere spiritualmente aristocratico.
Che indicazioni traiamo del post-moderno, dunque, osservando il colonnello Gheddafi? Potremmo dire: è il superamento della periodizzazione, così come l'estinzione di qualunque ordine di categorie. L'originalità ne è abolita, e il nuovo significato della parola consiste nell'uso originale che di qualunque cosa oggi si fa.
C'è un ritorno continuo alla tradizione, al passato, e pure una propensione a estendere il passato in un futuro che si vuole luminoso e promettente. Eric Voegelin avrebbe aggiunto qui la peculiarità individuata in tanti moti rivoluzionari e pure nei movimenti politici e culturali più pervasivi e radicati: l'immanentizzazione dell'eschaton, quel che rende l'ideologia una vera e propria religione. Ma il ritorno alla tradizione è fin troppo fuorviante; il messaggio religioso e politico del leader libico risulta fin troppo debilitato dalle scelte di guardaroba compiute da Gheddafi.
Vorremmo trarre da cio' alcune considerazioni approfondite sull'essenza del fenomeno conosciuto come 'post-moderno', ma il luogo peculiare per il discorso non sembra il blog.
La visita di Muammar Gheddafi in Italia, come abbiamo detto all'inizio, è avvenuta in concomitanza della partenza degli amici calabresi. Devo spendere qualche parola per questi giovani stagisti (anzi, ormai ex-stagisti, visto che hanno concluso la loro brillante esperienza e gia' hanno fatto ritorno alla vita normale).
Non dubitiamo che Malta abbia costituito un capitolo importante della loro vita. Certamente Pasquale, Serafino, Emilio, Antonio e Bina non dimenticheranno i tre mesi trascorsi all'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb. Non dimenticheranno la strada che va dalla fermata dell'autobus fino all'appartamento; non dimenticheranno poi il tragitto che compie l'autobus che da Msida va fino a Paceville. Forse non dimenticheranno nemmeno il casino di adolescenti in quel viottolo che serpeggia nei locali di divertimento notturno, in cui spesso si sono avventurati gia' ebbri. Facciamo i migliori auguri a questi giovani calabresi, con l'augurio che il ritorno alla vita normale e ordinaria non rappresenti una ricaduta nella vita piatta, convulsa, di labili soddisfazioni. Sicuramente questi giovani hanno il futuro davanti. L'esperienza dello stage ha insegnato loro cose importanti: la principale, forse, è che fare uno stage non serve a molto.
Ma in definitiva (come gia' abbiamo argomentato in tante occasioni) forse non esistono le perdite di tempo. Percio', va intesa questa avventura come un'occasione che a tutti è stata data per incontrarci e divertirci insieme. "Chi vuol esser lieto sia, del domani non v'è certezza". E questa digressione sul tempo profano (dunque vuoto) passato a Msida riporta all'estetica della vita post-moderna che, dobbiamo sottolineare, è ancora una volta coerente col tema del blog, che tratta nientemeno che del meraviglioso fenomeno delle cose belle.
Marzio Valdambrini - marzio19@yahoo.it
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mercoledì 25 agosto 2010
Estetica contemporanea del paesaggio. Terza visita a Tuffiah Bay.
Tanti pensieri si accavallano, i progetti vanno a gambe all'aria. Le coppie si disfano, ogni mano di poker scopre segreti impensati. Eppure qualcosa sopravvive, e sfida le regole del gioco.
Queste parole si prestano bene a illustrare una cosa che stavo scrivendo... prima di interrompermi, per andare a girare i fusilli che nella pentola rischiavano di incollarsi.
Adesso voglio parlare d'altro; la coerenza anzitutto.
Per la terza volta, nell'arco della mia esperienza maltese, sono stato a Tuffiah Bay, un luogo splendido sulla costa nord-occidentale dell'isola. Non ero solo; la presenza di un'amica ha allietato il viaggio.
Ci siamo arrampicati con le infradito sulla collina di rocce che domina la punta della baia, e che confina con un'altra baia normalmente famosa per la presenza di nudisti. Da lassù abbiamo ammirato la profondità del panorama, che si estendeva in tutte le dimensioni. Lassù, alle pendici rocciose di quel luogo tanto mediterraneo, ho riflettuto per almeno un minuto sull'estetica del paesaggio.
Adesso, con più calma e nella quiete (ugualmente torrida, purtroppo) del divano nel soggiorno, posso tracciare dei collegamenti bibliografici con tale soggetto. Hegel vedeva nelle Alpi un luogo tetro, dove non vi era bellezza e il disordine privo di estetica che la natura aveva prodotto. (Anche lui era legato a una concezione dell'estetica legata a un'idea di eticità). Burke, più tardi, ha invece amato gli spettacoli tribolanti della natura, esprimendo il piacere delle grandi potenze che trascendono l'uomo e superano la ragione (e perciò l'etica). Personalmente non credo che il bello e il brutto siano attribuzioni relative di significato, come una certa tendenza volgare dell'estetica contemporanea ci spinge a ritenere. C'è del bello in tante cose; nei monti e nei laghi, nelle frasche e nei pioppi, nelle dune di sabbia giallina come pure nelle pendici scoscese di un crepaccio. Ma nella natura, in ciò che la natura ha prodotto in epoche antiche o primordiali, possiamo davvero dire che ci sia qualcosa di brutto? Il Vesuvio va detto brutto, per il fatto che insidia la vita dei napoletani? Non crediamo questo. Lo avremmo detto se, anche noi come Hegel, avessimo pensato in termini di un'estetica permeata da una connotazione etica. Ci vorremmo domandare, a questo punto: ma oggi, dove la natura selvaggia è diventata un interessante argomento d'esplorazione, un vasto mondo da sfruttare ai fini dell'industria turistica, e le sue stereotipazioni attraggono visitatori, cercatori di riposo e di solitudine, eccetera eccetera, in tutto questo contesto, può trovarsi ancora un paesaggio naturale che vada considerato brutto?
Crediamo di no. (Escludendo ovviamente i paesaggi su cui ha inciso la mano dell'uomo). La spiegazione sta nel fatto, probabilmente, che oggigiorno la civilizzazione umana ha svelato le proprie brute conseguenze (dopo aver illustrato, propagandato e declamato però le preziose conquiste). Con ciò, è apparso che le acque avvelenate dal petrolio e dai diserbanti, le terre rese sterili dagli stessi veleni, per non parlare delle terre rase al suolo da qualche guerra, devono il loro connotato di bruttezza alla determinante incidenza dell'intervento umano. La natura alterata dall'uomo è una natura depauperata, giustamente oggetto di una valutazione morale. E qui si reintroduce la concezione hegeliana del paesaggio: un luogo distrutto dalle bombe è un brutto spettacolo, perché alla semplice osservazione si aggiunge la considerazione etica di quel che l'ha portato ad esser tale. Vogliamo notare questo spostamento di significato in chiave di interpretazione estetica: è la visione del paesaggio risultato dell'azione umana che si è spostata la concezione di una "estetica morale" come quella avallata da Hegel e dai suoi colleghi romantici tedeschi. Perché la concezione estetica ha perduto il tema etico, nel corso del Novecento, e l'ha ritrovato più recentemente, ma applicato solo a quel che l'uomo ha manipolato? Potremmo rispondere in questo modo (volendo esser rapidi, perché è tardi e questo è solo un blog): l'uomo si è reso conto che la natura non fa cazzate.
[Il sottotesto della conclusione può esprimersi, in chiave argomentativa, così: dal momento che la natura tende a creare un'armonia, non può trovarsi nulla di brutto al suo interno. L'azione dell'uomo ne modifica l'opera e la stravolge. L'intervento disarmonico è "brutto" perché rivela (nel senso heideggeriano del termine) la corruzione di quanto prima era posto. Ogni intervento perturbatore dell'ordine naturale (che col tempo ha assunto una connotazione etica positiva), che oggi è perlopiù identificato con l'intervento dell'uomo che stravolge un habitat per piegarlo ai suoi fini, è brutto dunque perché nega quel che si ritiene positivo. Scopriamo così che il brutto non è tanto l'antitesi del bello, quanto invece ciò che fa violenza al bello. Il brutto, nell'estetica del paesaggio, è la categoria di tutto quanto si è sostituito a qualcosa di incontaminato che gli preesisteva, e che l'intervento umano ha soppresso o modificato con propositi privi di preoccupazione per il rispetto ambientale.]
Marzio Valdambrini
Queste parole si prestano bene a illustrare una cosa che stavo scrivendo... prima di interrompermi, per andare a girare i fusilli che nella pentola rischiavano di incollarsi.
Adesso voglio parlare d'altro; la coerenza anzitutto.
Per la terza volta, nell'arco della mia esperienza maltese, sono stato a Tuffiah Bay, un luogo splendido sulla costa nord-occidentale dell'isola. Non ero solo; la presenza di un'amica ha allietato il viaggio.
Ci siamo arrampicati con le infradito sulla collina di rocce che domina la punta della baia, e che confina con un'altra baia normalmente famosa per la presenza di nudisti. Da lassù abbiamo ammirato la profondità del panorama, che si estendeva in tutte le dimensioni. Lassù, alle pendici rocciose di quel luogo tanto mediterraneo, ho riflettuto per almeno un minuto sull'estetica del paesaggio.
Adesso, con più calma e nella quiete (ugualmente torrida, purtroppo) del divano nel soggiorno, posso tracciare dei collegamenti bibliografici con tale soggetto. Hegel vedeva nelle Alpi un luogo tetro, dove non vi era bellezza e il disordine privo di estetica che la natura aveva prodotto. (Anche lui era legato a una concezione dell'estetica legata a un'idea di eticità). Burke, più tardi, ha invece amato gli spettacoli tribolanti della natura, esprimendo il piacere delle grandi potenze che trascendono l'uomo e superano la ragione (e perciò l'etica). Personalmente non credo che il bello e il brutto siano attribuzioni relative di significato, come una certa tendenza volgare dell'estetica contemporanea ci spinge a ritenere. C'è del bello in tante cose; nei monti e nei laghi, nelle frasche e nei pioppi, nelle dune di sabbia giallina come pure nelle pendici scoscese di un crepaccio. Ma nella natura, in ciò che la natura ha prodotto in epoche antiche o primordiali, possiamo davvero dire che ci sia qualcosa di brutto? Il Vesuvio va detto brutto, per il fatto che insidia la vita dei napoletani? Non crediamo questo. Lo avremmo detto se, anche noi come Hegel, avessimo pensato in termini di un'estetica permeata da una connotazione etica. Ci vorremmo domandare, a questo punto: ma oggi, dove la natura selvaggia è diventata un interessante argomento d'esplorazione, un vasto mondo da sfruttare ai fini dell'industria turistica, e le sue stereotipazioni attraggono visitatori, cercatori di riposo e di solitudine, eccetera eccetera, in tutto questo contesto, può trovarsi ancora un paesaggio naturale che vada considerato brutto?
Crediamo di no. (Escludendo ovviamente i paesaggi su cui ha inciso la mano dell'uomo). La spiegazione sta nel fatto, probabilmente, che oggigiorno la civilizzazione umana ha svelato le proprie brute conseguenze (dopo aver illustrato, propagandato e declamato però le preziose conquiste). Con ciò, è apparso che le acque avvelenate dal petrolio e dai diserbanti, le terre rese sterili dagli stessi veleni, per non parlare delle terre rase al suolo da qualche guerra, devono il loro connotato di bruttezza alla determinante incidenza dell'intervento umano. La natura alterata dall'uomo è una natura depauperata, giustamente oggetto di una valutazione morale. E qui si reintroduce la concezione hegeliana del paesaggio: un luogo distrutto dalle bombe è un brutto spettacolo, perché alla semplice osservazione si aggiunge la considerazione etica di quel che l'ha portato ad esser tale. Vogliamo notare questo spostamento di significato in chiave di interpretazione estetica: è la visione del paesaggio risultato dell'azione umana che si è spostata la concezione di una "estetica morale" come quella avallata da Hegel e dai suoi colleghi romantici tedeschi. Perché la concezione estetica ha perduto il tema etico, nel corso del Novecento, e l'ha ritrovato più recentemente, ma applicato solo a quel che l'uomo ha manipolato? Potremmo rispondere in questo modo (volendo esser rapidi, perché è tardi e questo è solo un blog): l'uomo si è reso conto che la natura non fa cazzate.
[Il sottotesto della conclusione può esprimersi, in chiave argomentativa, così: dal momento che la natura tende a creare un'armonia, non può trovarsi nulla di brutto al suo interno. L'azione dell'uomo ne modifica l'opera e la stravolge. L'intervento disarmonico è "brutto" perché rivela (nel senso heideggeriano del termine) la corruzione di quanto prima era posto. Ogni intervento perturbatore dell'ordine naturale (che col tempo ha assunto una connotazione etica positiva), che oggi è perlopiù identificato con l'intervento dell'uomo che stravolge un habitat per piegarlo ai suoi fini, è brutto dunque perché nega quel che si ritiene positivo. Scopriamo così che il brutto non è tanto l'antitesi del bello, quanto invece ciò che fa violenza al bello. Il brutto, nell'estetica del paesaggio, è la categoria di tutto quanto si è sostituito a qualcosa di incontaminato che gli preesisteva, e che l'intervento umano ha soppresso o modificato con propositi privi di preoccupazione per il rispetto ambientale.]
Marzio Valdambrini
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sabato 21 agosto 2010
Un altro sabato a ragionare di estetica e di caldo.
Un altro sabato ci trova a Msida, e per l'esattezza ci trova sul sofà. E qui pensiamo bene di scrivere qualcosa sul blog, che giace inerte e muto da 3 lunghi giorni. Cosa scrivere? Quale nuovo argomento, importante o irrisorio, a cui dedicare cinque minuti del nostro tempo?
Quando il sole tropicale picchia, e si suda anche solo a respirare, tutto ci appare sotto una luce diversa. Nessuna categoria estetica è stata ancor'oggi definita rigorosamente, per poter esprimere questo sentimento che fonde la melancolia con lo spleen baudelariano.
Gli amici oggi mi hanno abbandonato: sono andati a Gozo, l'isola a est di Malta. Staranno via tutto il weekend, e in questo lasso io sperimenterò la più accaldata delle solitudini. A consolarmi, ci sarà soltanto il corpulento volume dell'Età secolare, di Charles Taylor. Beh, ci sarebbe anche il barbecue di stasera, ma quello più che una consolazione mi pare un obbligo che mi è imposto dai legami sociali che involontariamente ho intessuto con chi mi stava attorno.
Ecco, possiamo parlare dell'estetica dei legami sociali.
Ogni relazione può dirsi bella o brutta. Nella banalità delle espressioni, è indubbio che il fatto che si percepisca ogni relazione connotata da una specifica qualità sensibile; che ci rallegra o ci annoia, che ci opprime o ci è indifferente e in tal caso è solo uno scialbo pretesto per passare il tempo. Il fatto che l'uomo sia un animale sociale, o che la sua natura sia soprattutto sociale (come oggi tanti sociologi sottolineano e ripetono fino alla nausea) vorrebbe farci pensare dunque che l'uomo nasce, cresce e si sviluppa in costante riferimento alla rete sociale in cui vive inserito. La vita stessa, è la congiunzione del sé con una pluralità di elementi esterni, quali appunto gli altri individui e tutto quel che le circostanze vi includono. L'estetica della vita sociale è dunque la tessitura di tante note, che insieme compongono un'armonia. Oggi siamo in compagnia di una persona che ci rallegra; domani ne avremo a noia. Un altro domani, forse, ne sentiremo accresciuta l'importanza. Il mistero delle cose belle, così come quello di ogni relazione che ci appaga o ci entusiasma, sembra dunque pertinente a un mistero più grande, che chiamiamo da sempre il mistero della vita. Quest'ultimo infatti lo comprende; se il piacere o il disprezzo (come ogni impressione estetica) concerne una relazione, univoca o biunivoca, ma sempre avuta all'interno di un discorso sociale, e pure consideriamo che l'uomo è per essenza un animale sociale, ci appare ovvio che il problema estetico sia pure un problema antropologico. Da qui il rimando all'estetica in chiave di scienza umana (e si ricordano le ricerche in materia svolte da Levy-Strauss). Ma se superiamo il piano puramente empirico, qual'è appunto quello trattato dallo scienziato, e ci volgiamo al mistero, troviamo che nella percezione estetica si rivela qualcosa di trascendente. E questo è ciò che un approccio antropologico all'argomento deve per forza travisare. Dicendo che il mistero della bellezza pertiene al più grande mistero della vita diciamo appunto questo: vi è un rimando più forte, superiore alle categorizzazioni e alle spiegazioni causali del sentimento di qualcosa o qualcuno (come pure di una relazione sociale), che non è affatto riducibile a una logica meccanicistica (quale si intende, nel più comune e banale degli esempi, la logica dell'utile o dell'interesse).
Cercheremo di approfondire il discorso in altra sede.
Adesso ci limitiamo qui a subire il caldo; come unico rimedio abbiamo la possibilità di andare in camera, dove spira adesso un filo di vento. Per introdurre il prossimo post (o uno dei prossimi), attacco qui sotto il link a uno splendido video di Georges Ivanovic Gurdjeff, un grande maestro dell'Occidente, che merita decisamente la nostra attenzione.
<object width="480" height="385"><param name="movie" value="http://www.youtube.com/v/Z23tl6l_AB8?fs=1&hl=it_IT"></param><param name="allowFullScreen" value="true"></param><param name="allowscriptaccess" value="always"></param><embed src="http://www.youtube.com/v/Z23tl6l_AB8?fs=1&hl=it_IT" type="application/x-shockwave-flash" allowscriptaccess="always" allowfullscreen="true" width="480" height="385"></embed></object>
Quando il sole tropicale picchia, e si suda anche solo a respirare, tutto ci appare sotto una luce diversa. Nessuna categoria estetica è stata ancor'oggi definita rigorosamente, per poter esprimere questo sentimento che fonde la melancolia con lo spleen baudelariano.
Gli amici oggi mi hanno abbandonato: sono andati a Gozo, l'isola a est di Malta. Staranno via tutto il weekend, e in questo lasso io sperimenterò la più accaldata delle solitudini. A consolarmi, ci sarà soltanto il corpulento volume dell'Età secolare, di Charles Taylor. Beh, ci sarebbe anche il barbecue di stasera, ma quello più che una consolazione mi pare un obbligo che mi è imposto dai legami sociali che involontariamente ho intessuto con chi mi stava attorno.
Ecco, possiamo parlare dell'estetica dei legami sociali.
Ogni relazione può dirsi bella o brutta. Nella banalità delle espressioni, è indubbio che il fatto che si percepisca ogni relazione connotata da una specifica qualità sensibile; che ci rallegra o ci annoia, che ci opprime o ci è indifferente e in tal caso è solo uno scialbo pretesto per passare il tempo. Il fatto che l'uomo sia un animale sociale, o che la sua natura sia soprattutto sociale (come oggi tanti sociologi sottolineano e ripetono fino alla nausea) vorrebbe farci pensare dunque che l'uomo nasce, cresce e si sviluppa in costante riferimento alla rete sociale in cui vive inserito. La vita stessa, è la congiunzione del sé con una pluralità di elementi esterni, quali appunto gli altri individui e tutto quel che le circostanze vi includono. L'estetica della vita sociale è dunque la tessitura di tante note, che insieme compongono un'armonia. Oggi siamo in compagnia di una persona che ci rallegra; domani ne avremo a noia. Un altro domani, forse, ne sentiremo accresciuta l'importanza. Il mistero delle cose belle, così come quello di ogni relazione che ci appaga o ci entusiasma, sembra dunque pertinente a un mistero più grande, che chiamiamo da sempre il mistero della vita. Quest'ultimo infatti lo comprende; se il piacere o il disprezzo (come ogni impressione estetica) concerne una relazione, univoca o biunivoca, ma sempre avuta all'interno di un discorso sociale, e pure consideriamo che l'uomo è per essenza un animale sociale, ci appare ovvio che il problema estetico sia pure un problema antropologico. Da qui il rimando all'estetica in chiave di scienza umana (e si ricordano le ricerche in materia svolte da Levy-Strauss). Ma se superiamo il piano puramente empirico, qual'è appunto quello trattato dallo scienziato, e ci volgiamo al mistero, troviamo che nella percezione estetica si rivela qualcosa di trascendente. E questo è ciò che un approccio antropologico all'argomento deve per forza travisare. Dicendo che il mistero della bellezza pertiene al più grande mistero della vita diciamo appunto questo: vi è un rimando più forte, superiore alle categorizzazioni e alle spiegazioni causali del sentimento di qualcosa o qualcuno (come pure di una relazione sociale), che non è affatto riducibile a una logica meccanicistica (quale si intende, nel più comune e banale degli esempi, la logica dell'utile o dell'interesse).
Cercheremo di approfondire il discorso in altra sede.
Adesso ci limitiamo qui a subire il caldo; come unico rimedio abbiamo la possibilità di andare in camera, dove spira adesso un filo di vento. Per introdurre il prossimo post (o uno dei prossimi), attacco qui sotto il link a uno splendido video di Georges Ivanovic Gurdjeff, un grande maestro dell'Occidente, che merita decisamente la nostra attenzione.
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mercoledì 18 agosto 2010
Cossiga non c'è più, e intanto Irene, Vanessa e Francesca tornano in Italy
Pochi lo sanno, ma Francesco Cossiga, il celebre democristiano che voleva prendere a picconate l'Italia, nella sua poliforme esistenza è stato pure un cavaliere di Malta. Non è una cazzata! Guardate la pagina su Wikipedia che gli è dedicata. E siccome qui ci troviamo a Malta (e in particolare a Msida, in un posto afoso in cui un alito di vento non arriva neanche a pagarlo, e in cui per sopravvivere bisogna affidarsi al ventilatore old-style se non al condizionatore) avvertiamo la necessità di trarre un parallelo.
Il parallelo è il seguente. Il vecchio senatore a vita, raggiunta ormai un'età veneranda, se ne va nel mondo dei più e lascia la poltrona a qualche giovane rampollo di belle speranze che attende la gloria nel mondo della politica (il giovane rampollo, si intende, avrà altrettanti agganci e sarà forse altrettanto disposto a salvare la democrazia, a fronte di minacciose contestazioni). Un uomo se ne va, e intanto al mondo ne viene un altro.
E' il mistero della vita: si viene e si va. Tutto è transitivo, e ogni cosa sembra destinata a divenire altro.
In quest'orizzonte di mutamento va inscritta anche l'esperienza di Irene, Francesca e Vanessa. Queste sono tre stagiste che hanno appena terminato il progetto Leonardo. Un progetto di tre mesi, che hanno affrontato col massimo entusiasmo, con la determinazione che oggi è necessaria per chiunque abbia la seria intenzione di avviare qualcosa di importante nella vita. Le loro attese, i loro sogni, le loro ambizioni avranno trovato un responso, una felice ricompensa? Il futuro è pieno di incognite, ma la luce che lo illumina proviene dal presente.
Le ragazze sanno che oggi tutto è difficile. Le cose belle - diceva Socrate, e già lo abbiamo ricordato altrove - sono difficili.
Non ci vogliamo accontentare, noi. Siamo preparati alle intemperie, possiamo soffrire e continueremo a soffrire, nell'impossibilità di veder trionfare la giustizia, quella che premia i sacrifici e punisce gli stronzi.
Il discorso si sta allargando in maniera poco coerente, e forse dobbiamo circoscriverlo allo specifico evento della partenza delle ragazze. La loro esperienza maltese è conclusa e un'altra - sicuramente diversa, sicuramente ricca di più concrete finalità - inizierà. Chi troverà lavoro, chi proseguirà gli studi, chi riuscirà a fare entrambe le cose. Chi si innamorerà. O chi invece si ri-innamorerà. Chi invece non ha bisogno di nulla di ciò, e forse continuerà a vivere come viveva esattamente prima di intraprendere il viaggio maltese; in tal caso tornerà quello che era prima, salvo avere dei contatti in più su Facebook.
Cosa possiamo dire, allora, se non un augurio di prosperità e serenità a queste ragazze, che hanno messo in gioco il loro tempo e hanno accettato di vivere un'esperienza come lo stage appena trascorso? Un abbraccio a tutte voi, ragazze! Nessuno vi dimenticherà! (anche perché vi abbiamo taggato in tutte le foto che conserviamo di voi).
Il rimpianto per il tempo passato insieme, nel caso particolare il tempo che abbiamo vissuto con voi in giro per l'isola e nell'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb, è un sentimento che si ascrive al nocciolo delle cose belle.
Ci rievoca anche le parole con cui Ernst Junger, l'instancabile esteta ed entomologo tedesco, apriva il suo romanzo Sulle scogliere di marmo.
"Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!".
Il parallelo è il seguente. Il vecchio senatore a vita, raggiunta ormai un'età veneranda, se ne va nel mondo dei più e lascia la poltrona a qualche giovane rampollo di belle speranze che attende la gloria nel mondo della politica (il giovane rampollo, si intende, avrà altrettanti agganci e sarà forse altrettanto disposto a salvare la democrazia, a fronte di minacciose contestazioni). Un uomo se ne va, e intanto al mondo ne viene un altro.
E' il mistero della vita: si viene e si va. Tutto è transitivo, e ogni cosa sembra destinata a divenire altro.
In quest'orizzonte di mutamento va inscritta anche l'esperienza di Irene, Francesca e Vanessa. Queste sono tre stagiste che hanno appena terminato il progetto Leonardo. Un progetto di tre mesi, che hanno affrontato col massimo entusiasmo, con la determinazione che oggi è necessaria per chiunque abbia la seria intenzione di avviare qualcosa di importante nella vita. Le loro attese, i loro sogni, le loro ambizioni avranno trovato un responso, una felice ricompensa? Il futuro è pieno di incognite, ma la luce che lo illumina proviene dal presente.
Le ragazze sanno che oggi tutto è difficile. Le cose belle - diceva Socrate, e già lo abbiamo ricordato altrove - sono difficili.
Non ci vogliamo accontentare, noi. Siamo preparati alle intemperie, possiamo soffrire e continueremo a soffrire, nell'impossibilità di veder trionfare la giustizia, quella che premia i sacrifici e punisce gli stronzi.
Il discorso si sta allargando in maniera poco coerente, e forse dobbiamo circoscriverlo allo specifico evento della partenza delle ragazze. La loro esperienza maltese è conclusa e un'altra - sicuramente diversa, sicuramente ricca di più concrete finalità - inizierà. Chi troverà lavoro, chi proseguirà gli studi, chi riuscirà a fare entrambe le cose. Chi si innamorerà. O chi invece si ri-innamorerà. Chi invece non ha bisogno di nulla di ciò, e forse continuerà a vivere come viveva esattamente prima di intraprendere il viaggio maltese; in tal caso tornerà quello che era prima, salvo avere dei contatti in più su Facebook.
Cosa possiamo dire, allora, se non un augurio di prosperità e serenità a queste ragazze, che hanno messo in gioco il loro tempo e hanno accettato di vivere un'esperienza come lo stage appena trascorso? Un abbraccio a tutte voi, ragazze! Nessuno vi dimenticherà! (anche perché vi abbiamo taggato in tutte le foto che conserviamo di voi).
Il rimpianto per il tempo passato insieme, nel caso particolare il tempo che abbiamo vissuto con voi in giro per l'isola e nell'Orchidea Apartment di Triq Tal-Hriereb, è un sentimento che si ascrive al nocciolo delle cose belle.
Ci rievoca anche le parole con cui Ernst Junger, l'instancabile esteta ed entomologo tedesco, apriva il suo romanzo Sulle scogliere di marmo.
"Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell'alone del ricordo, e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata, che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento. Sempre di nuovo ritroviamo negli affannosi sogni il passato, in ogni suo aspetto, e come ciechi brancoliamo verso di esso. La coppa della vita e dell'amore ci sembra non esser stata colma sino all'orlo, per noi, e nessun rimpianto vale a ridonarci tutto ciò che non abbiamo avuto. Oh, fosse questa tristezza almeno d'insegnamento per ogni nuovo attimo di felicità!".
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lunedì 16 agosto 2010
L'amore al tempo del calore - E Letizia se ne andrà
Domani Letizia se ne andrà. Alle ore 7 il suo volo la porterà lontano da qui, da quest'isola selvaggia e battuta dal sole africano, in cui l'uomo ha stabilito un precario e difficile accordo con la Storia. Trovavo nelle pagine di Garcia Marquez una frase che descriveva il rapporto simbiotico tra l'uomo e la natura. Purtroppo il tempo, e gli impegni variegati che mi obbligano a non perseguire in certi propositi, mi han fatto dimenticare il riferimento preciso; per non rischiare un errore eviterò di fare citazioni.
Dicevo, insomma, che il volo di domani mattina porterà via il rosso ruggine dei capelli di Letizia, nonché il suo sorriso. Che ci resterà, per allietare queste giornate che il mondo postmoderno ci obbliga a trascorrere davanti a Facebook? Che ne sarà di Letizia, ora che il progetto Leonardo è arrivato al capolinea, e per lei si tratta di voltar pagina? La sua prossima avventura le farà dimenticare i momenti maltesi che ha vissuto sull'isola? (Non con me, visto che ci siam visti poco e in maniera sfuggevole). La vita ha per lei in serbo tante sorprese. Non sappiamo quali, ma certo saranno floride e piene di fortuna, perché così è l'orientamento aperto ed entusiasta con cui Letizia si rivolge alla vita.
Deh, ma questo post sta venendo fuori un pappone; cerchiamo di tornare sui binari del solito stile.
Dobbiamo anche domandarci: e che ne sarà di noi, al termine di quest'esperienza? Cosa ci porteremo nel cuore, e come saremo cambiati? Riconosceremo le nostre nuove angosce, che forse rispecchieranno quelle antiche, cioé del tempo che precedeva il Leonardo, e forse precedeva la nostra coscienza immatura delle cose belle? Qualcosa mi spinge a pensare che è proprio quella coscienza immatura, che ci fa godere con più trasporto delle cose belle.
Ma per questo, scriverò un altro post.
Adesso è l'ora della cena.
Dicevo, insomma, che il volo di domani mattina porterà via il rosso ruggine dei capelli di Letizia, nonché il suo sorriso. Che ci resterà, per allietare queste giornate che il mondo postmoderno ci obbliga a trascorrere davanti a Facebook? Che ne sarà di Letizia, ora che il progetto Leonardo è arrivato al capolinea, e per lei si tratta di voltar pagina? La sua prossima avventura le farà dimenticare i momenti maltesi che ha vissuto sull'isola? (Non con me, visto che ci siam visti poco e in maniera sfuggevole). La vita ha per lei in serbo tante sorprese. Non sappiamo quali, ma certo saranno floride e piene di fortuna, perché così è l'orientamento aperto ed entusiasta con cui Letizia si rivolge alla vita.
Deh, ma questo post sta venendo fuori un pappone; cerchiamo di tornare sui binari del solito stile.
Dobbiamo anche domandarci: e che ne sarà di noi, al termine di quest'esperienza? Cosa ci porteremo nel cuore, e come saremo cambiati? Riconosceremo le nostre nuove angosce, che forse rispecchieranno quelle antiche, cioé del tempo che precedeva il Leonardo, e forse precedeva la nostra coscienza immatura delle cose belle? Qualcosa mi spinge a pensare che è proprio quella coscienza immatura, che ci fa godere con più trasporto delle cose belle.
Ma per questo, scriverò un altro post.
Adesso è l'ora della cena.
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domenica 15 agosto 2010
Caravaggio era un assassino
Visitare la Cattedrale di San Giovanni è un'esperienza indimenticabile. Nel corso dei secoli ci hanno accatastato pezzi d'arte del genere più raffinato, i famosi cavalieri hanno tolto l'eredità ai figli per addobbare le cappelle di questa grande costruzione barocca con chiostri, statue, incisioni, pitture, e quant'altro si possa immaginare. L'impressione, in certi spazi, è che il barocco si commuti in una forma modernissima di art decò (soprattutto in una cappella, in cui il simbolo della croce maltese ripetuta sull'intera parete offre l'impressione di una riproduzione tecnica piuttosto che liberamente manuale. Nell'Oratorio della Cattedrale si trova il grande dipinto di Caravaggio, che rappresenta la decapitazione del Battista. La guida ci informa delle vicissitudini che hanno spinto l'artista italiano nell'isola dei Cavalieri. In fuga a seguito dell'uccisione di un uomo, ferito da lui a morte, e nell'attesa speranzosa dell'assoluzione da parte del Papa, Caravaggio sbarcò e fu ben accolto nell'isola, dove fu incaricato di fare alcuni lavori. La sua aspirazione era inoltre quella di diventare Cavaliere di Malta, e la benevolenza di un gran maestro dell'Ordine lo facilitò nell'investitura.
In qualche post precedente, se mi ricordo bene, ho parlato della violenza, e del suo rapporto con l'arte. Non si può ripensare a questo, ricordando il carattere intemperante dell'artista, che lo condusse a un ennesimo delitto. Il celebrato artista, infatti, si rese colpevole della morte di un venerato maestro dell'Ordine, tantoché lo stesso maestro che lo aveva ben accolto si trovò ad espellerlo e a giudicarlo fuori legge. L'evasione di Caravaggio, ancora una volta in fuga, segna un'ennesima tappa nella vita di questo estroso e sanguigno personaggio, che noi abbiamo per tanto tempo raffigurato sulla banconota da centomila lire.
La sua immagine sulla banconota lo vorrebbe testimonial del denaro; ma qui, sulla carta filigranata, già notiamo i suoi occhi spiritati, il volto ottenebrato da una passione sconosciuta, e l'intensità dello sguardo ci induce a credere che si trattasse di un'anima volubile.
Come definire la violenza, allora, se non l'incapacità di sottomettere le passioni a una regolazione morale, e dunque l'irrompere e il prevaricare della natura umana su quel che intorno a noi, nella vita sociale che ci regola negli istinti e ci guida nell'incanalare in modo costruttivo le nostre tendenze, si pone da argine e metro per la stabilità?
Nel blog non trattiamo però di questioni morali, e se introduciamo qualche riga sulla violenza è un fatto dovuto al tema artistico. La violenza condusse l'artista alla latitanza, nonché alla scomunica, e infine all'isolamento da parte dei benefattori che pure lo avevano sostenuto all'inizio. Ma è certo, forse, che la fortuna dell'uomo è il contraltare della disgrazia.
Nella disgrazia l'uomo ricade negli inferi, attraversa un cammino inverso che lo riporta al magma primordiale della vita, del brulicare di cose, idee, pensieri, situazioni lasciate del tutto in balia del caso; questo è lo stadio primordiale, in cui il percorso per il raggiungimento di una verità è da ripercorrere dall'inizio. Nella vita, tuttavia, non si può tirare i dadi all'infinito.
A un certo punto, i risultati delle nostre azioni vengono alla luce nella loro solidità. Siamo gratificati o condannati. Nel caso dell'artista barocco, va notato che la sua libertà incontrollata gli ha posto un cappio intorno al collo.
E dunque, c'è una morale della favola, per l'uomo che stava inquieto sulla banconota da centomila lire? Forse no. O forse sì: è magari il caso di ricordare la Favola delle api di Mandeville, ove si sostiene, con una celebre argomentazione, che i vizi privati spesso si prestano in favore di un'utilità pubblica.
Insomma, per aggiungere una cornice alla riflessione notturna del pomeriggio di due giorni precedenti, posso dire che nella Cattedrale faceva fresco. Ero in compagnia di Bina e di Emilio. Oggi ho trascorso il giorno a Sliema e la serata seduto a un caffé all'aperto. Ma questo è meno importante ai fini del blog, che, come già detto e ripetuto, ha per oggetto esclusivo l'indagine fenomenologica delle sensazioni piacevoli e delle cose interessanti.
In qualche post precedente, se mi ricordo bene, ho parlato della violenza, e del suo rapporto con l'arte. Non si può ripensare a questo, ricordando il carattere intemperante dell'artista, che lo condusse a un ennesimo delitto. Il celebrato artista, infatti, si rese colpevole della morte di un venerato maestro dell'Ordine, tantoché lo stesso maestro che lo aveva ben accolto si trovò ad espellerlo e a giudicarlo fuori legge. L'evasione di Caravaggio, ancora una volta in fuga, segna un'ennesima tappa nella vita di questo estroso e sanguigno personaggio, che noi abbiamo per tanto tempo raffigurato sulla banconota da centomila lire.
La sua immagine sulla banconota lo vorrebbe testimonial del denaro; ma qui, sulla carta filigranata, già notiamo i suoi occhi spiritati, il volto ottenebrato da una passione sconosciuta, e l'intensità dello sguardo ci induce a credere che si trattasse di un'anima volubile.
Come definire la violenza, allora, se non l'incapacità di sottomettere le passioni a una regolazione morale, e dunque l'irrompere e il prevaricare della natura umana su quel che intorno a noi, nella vita sociale che ci regola negli istinti e ci guida nell'incanalare in modo costruttivo le nostre tendenze, si pone da argine e metro per la stabilità?
Nel blog non trattiamo però di questioni morali, e se introduciamo qualche riga sulla violenza è un fatto dovuto al tema artistico. La violenza condusse l'artista alla latitanza, nonché alla scomunica, e infine all'isolamento da parte dei benefattori che pure lo avevano sostenuto all'inizio. Ma è certo, forse, che la fortuna dell'uomo è il contraltare della disgrazia.
Nella disgrazia l'uomo ricade negli inferi, attraversa un cammino inverso che lo riporta al magma primordiale della vita, del brulicare di cose, idee, pensieri, situazioni lasciate del tutto in balia del caso; questo è lo stadio primordiale, in cui il percorso per il raggiungimento di una verità è da ripercorrere dall'inizio. Nella vita, tuttavia, non si può tirare i dadi all'infinito.
A un certo punto, i risultati delle nostre azioni vengono alla luce nella loro solidità. Siamo gratificati o condannati. Nel caso dell'artista barocco, va notato che la sua libertà incontrollata gli ha posto un cappio intorno al collo.
E dunque, c'è una morale della favola, per l'uomo che stava inquieto sulla banconota da centomila lire? Forse no. O forse sì: è magari il caso di ricordare la Favola delle api di Mandeville, ove si sostiene, con una celebre argomentazione, che i vizi privati spesso si prestano in favore di un'utilità pubblica.
Insomma, per aggiungere una cornice alla riflessione notturna del pomeriggio di due giorni precedenti, posso dire che nella Cattedrale faceva fresco. Ero in compagnia di Bina e di Emilio. Oggi ho trascorso il giorno a Sliema e la serata seduto a un caffé all'aperto. Ma questo è meno importante ai fini del blog, che, come già detto e ripetuto, ha per oggetto esclusivo l'indagine fenomenologica delle sensazioni piacevoli e delle cose interessanti.
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venerdì 13 agosto 2010
Le stelle non le ho viste
Ho fatto la doccia, ho mangiato una specie di kinder delice, e infine ho accompagnato gli amici alla fermata dell'autobus. Sarei dovuto andare con loro a Valletta, dove un altro autobus ci avrebbe portati a Ta-Qali, ossia al parco nazionale maltese. Era previsto che avremmo guardato le stelle cadenti.
Da ultimo, però, alcuni pensieri repentini mi hanno fermato e mi hanno spinto a riflettere: perché cercare uno spettacolo così triste, com'è quello delle stelle che cadono? Il significato della morte, della caduta, dello spegnersi o del crepare, non va confuso con l'estetica dei luoghi comuni, che vuole "romantico" qualcosa che ha significato solo in riferimento a un qualche immaginario di riferimento. La fenomenologia dei sensi, prima di tutto, esige che le cose siano apprezzabili per quel che sono di per sé.
(Questa considerazione mi viene adesso spontanea, se avessi voluto cercare un alibi per il mio dietro-front, che m'ha fatto tornare poi a casa. Avevo anche un'altra motivazione, che trovo però giusto adesso tralasciare, perché poco adatta all'estetica del discorso).
Stavamo parlando delle stelle cadenti.
Mi torna in mente un passo del Paradise Lost di Milton, che lessi molto tempo fa. (Forse addirittura lo confondo con qualcos'altro, complice appunto la distanza che mi separa dalla stessa lettura). Qui, ricordo, si dice che le stelle importanti sono già cadute, e quelle che restano in cielo sono i pezzettini che quelle grosse, le stelle serie, hanno lasciato per aria al momento del collasso. Un altro poeta, meno lirico e forse ancor meno anglosassone, ha scritto che in cielo si vede risplendere la luce di stelle che sono esplose e percio' decedute da migliaia di anni, e solo con un enorme ritardo noi vediamo lo splendore a causa appunto dell'enorme distanza di anni luce che ci separa.
Le stelle cadenti mi portano a pensare questo, appunto: gli anni e la luce.
Alcuni anni fa avevo pensato di scrivere una poesia, ma poi mi è sembrata una cosa inutile. Ci sono già i tecnici che lo fanno di professione, e magari quel che loro dicono sollecita la fantasia molto più di quanto facciano i reveurs, cioè quelli che non si preoccupano di dimostrare la verità (e cioè l'inclusione in una rete di significati intrecciati e di circolare rimando).
Adesso sono le 13,25, si avvicina cosi' l'ora di chiusura dell'ufficio. Oggi pomeriggio andrò con Bina a vedere il quadro di Caravaggio che sta nella Cattedrale di Saint John. Cercherò di scrivere qualcosa in proposito, avendo finalmente un oggetto d'arte per il blog, che appunto vuol trattare di cose esteticamente importanti, piccole come un lapislazzulo o grandi come una cucina a incasso.
Da ultimo, però, alcuni pensieri repentini mi hanno fermato e mi hanno spinto a riflettere: perché cercare uno spettacolo così triste, com'è quello delle stelle che cadono? Il significato della morte, della caduta, dello spegnersi o del crepare, non va confuso con l'estetica dei luoghi comuni, che vuole "romantico" qualcosa che ha significato solo in riferimento a un qualche immaginario di riferimento. La fenomenologia dei sensi, prima di tutto, esige che le cose siano apprezzabili per quel che sono di per sé.
(Questa considerazione mi viene adesso spontanea, se avessi voluto cercare un alibi per il mio dietro-front, che m'ha fatto tornare poi a casa. Avevo anche un'altra motivazione, che trovo però giusto adesso tralasciare, perché poco adatta all'estetica del discorso).
Stavamo parlando delle stelle cadenti.
Mi torna in mente un passo del Paradise Lost di Milton, che lessi molto tempo fa. (Forse addirittura lo confondo con qualcos'altro, complice appunto la distanza che mi separa dalla stessa lettura). Qui, ricordo, si dice che le stelle importanti sono già cadute, e quelle che restano in cielo sono i pezzettini che quelle grosse, le stelle serie, hanno lasciato per aria al momento del collasso. Un altro poeta, meno lirico e forse ancor meno anglosassone, ha scritto che in cielo si vede risplendere la luce di stelle che sono esplose e percio' decedute da migliaia di anni, e solo con un enorme ritardo noi vediamo lo splendore a causa appunto dell'enorme distanza di anni luce che ci separa.
Le stelle cadenti mi portano a pensare questo, appunto: gli anni e la luce.
Alcuni anni fa avevo pensato di scrivere una poesia, ma poi mi è sembrata una cosa inutile. Ci sono già i tecnici che lo fanno di professione, e magari quel che loro dicono sollecita la fantasia molto più di quanto facciano i reveurs, cioè quelli che non si preoccupano di dimostrare la verità (e cioè l'inclusione in una rete di significati intrecciati e di circolare rimando).
Adesso sono le 13,25, si avvicina cosi' l'ora di chiusura dell'ufficio. Oggi pomeriggio andrò con Bina a vedere il quadro di Caravaggio che sta nella Cattedrale di Saint John. Cercherò di scrivere qualcosa in proposito, avendo finalmente un oggetto d'arte per il blog, che appunto vuol trattare di cose esteticamente importanti, piccole come un lapislazzulo o grandi come una cucina a incasso.
mercoledì 11 agosto 2010
Il tempo maltese e le domande per strada (1)
Dopo l'ufficio, nel pomeriggio, ho trovato ancora del tempo da buttare. Così ho percorso un tragitto, attraverso un sentiero di terra e asfalto tra la vegetazione mediterranea, lungo una fila di cactus e roba del genere. In questa maniera sono giunto alla palestra, dove mi sono iscritto per un mese. Vedrò così di conciliare il tempo secolare, che è qualitativemente indifferenziato, (ritrovo una considerazione di Charles Taylor nel libro che ho finito di leggere due giorni fa) e l'insoddisfacente varietà di svaghi che questa posizione mi offre.
Ho riflettuto ancora un po' su questa esperienza di stage. Forse non era la scelta da prendere; forse mi sarei dovuto comportare in altro modo. Insomma, col curriculum che ho, potevo trovarmi un lavoro serio anziché venir qua a sudare (per il caldo più che per la fatica) e ad imparanoiarmi per un lavoro che lavoro non è.
Ma chi ha la risposta a questo enigma, visto soprattutto che la domanda non so (e forse nessuno sa) come si formuli correttamente? Se mi domando: "Che lavoro potrei trovare in questo momento", allora mi sbaglio per una visione troppo minima; se mi domandassi "Che cosa mi piacerebbe fare", invece sarei tanto ingenuo da chiedermi qualcosa di troppo ideale e dunque astratto. Le domande intermedie non hanno un referente; e io non sono in grado di stabilire il futuro.
Prendere quello che passa, giorno per giorno, finisce per distruggere chi vuole sentirsi la terra ferma sotto i piedi.
Non ci credo alla modernità liquida, all'amore liquido, a tutte le cose liquide di cui un vecchio signore ha parlato. Credo che tutto sia solido; il tempo, il cuore, il lavoro. La struttura di ogni cosa è infatti solida, ma risente inevitabilmente di quel che noi ci infiliamo dentro. Ci mettiamo cose soffici e fragili, e tutto ci sembra ugualmente fragile. Se dipendesse solo dalle nostre intenzioni...
Ma sto andando fuori tema. Il blog vuole parlare di cose belle, e queste ancora si sfuggono.
Platone, nell'Ippia Maggiore, faceva dire infine a Socrate che "le cose belle sono difficili", e appunto, come non essere d'accordo, alla luce delle situazioni che ci avvelenano i pensieri sul mondo e su ogni cosa, come quelli che viviamo in una situazione come questa?
Niente lavoro serio, niente soldi, niente soddisfazioni artistiche. Le cose belle sono difficili... perché è difficile riconoscerle. L'incertezza ci porta alla confusione; non siamo padroni del nostro giudizio, quando siamo spinti a pensare in base a quel che vorremmo e non é, a quel che dovrebbe essere e non è, a quel che siamo costretti a fare e quel che ci sarà sempre precluso...
E così, dopo essermi iscritto in palestra, sono tornato a casa. Ho mangiato due piatti di pasta, e poi ho raggiunto Letizia e altri stagisti alla spiaggia di Sliema.
Erano già le sei, e tirava un venticello fresco che mi faceva sentire in pace con me stesso.
C'era meno gente del solito, forse perché i turisti hanno cambiato idea e hanno deciso di andarsene. (Frasi del genere ci stanno bene, per chiudere un post quando non si ha granché da dire. Non ricordo quello che volessi scrivere, quando ho iniziato a scrivere. Ma è vero, a quanto ho visto, che le cose più grandi si fanno senza avere idee in proposito... Insomma, sono discorsi da mezzanotte passata. Adesso è l'ora che mi sdrai sul letto maltese, e qui chiuda gli occhi).
Ho riflettuto ancora un po' su questa esperienza di stage. Forse non era la scelta da prendere; forse mi sarei dovuto comportare in altro modo. Insomma, col curriculum che ho, potevo trovarmi un lavoro serio anziché venir qua a sudare (per il caldo più che per la fatica) e ad imparanoiarmi per un lavoro che lavoro non è.
Ma chi ha la risposta a questo enigma, visto soprattutto che la domanda non so (e forse nessuno sa) come si formuli correttamente? Se mi domando: "Che lavoro potrei trovare in questo momento", allora mi sbaglio per una visione troppo minima; se mi domandassi "Che cosa mi piacerebbe fare", invece sarei tanto ingenuo da chiedermi qualcosa di troppo ideale e dunque astratto. Le domande intermedie non hanno un referente; e io non sono in grado di stabilire il futuro.
Prendere quello che passa, giorno per giorno, finisce per distruggere chi vuole sentirsi la terra ferma sotto i piedi.
Non ci credo alla modernità liquida, all'amore liquido, a tutte le cose liquide di cui un vecchio signore ha parlato. Credo che tutto sia solido; il tempo, il cuore, il lavoro. La struttura di ogni cosa è infatti solida, ma risente inevitabilmente di quel che noi ci infiliamo dentro. Ci mettiamo cose soffici e fragili, e tutto ci sembra ugualmente fragile. Se dipendesse solo dalle nostre intenzioni...
Ma sto andando fuori tema. Il blog vuole parlare di cose belle, e queste ancora si sfuggono.
Platone, nell'Ippia Maggiore, faceva dire infine a Socrate che "le cose belle sono difficili", e appunto, come non essere d'accordo, alla luce delle situazioni che ci avvelenano i pensieri sul mondo e su ogni cosa, come quelli che viviamo in una situazione come questa?
Niente lavoro serio, niente soldi, niente soddisfazioni artistiche. Le cose belle sono difficili... perché è difficile riconoscerle. L'incertezza ci porta alla confusione; non siamo padroni del nostro giudizio, quando siamo spinti a pensare in base a quel che vorremmo e non é, a quel che dovrebbe essere e non è, a quel che siamo costretti a fare e quel che ci sarà sempre precluso...
E così, dopo essermi iscritto in palestra, sono tornato a casa. Ho mangiato due piatti di pasta, e poi ho raggiunto Letizia e altri stagisti alla spiaggia di Sliema.
Erano già le sei, e tirava un venticello fresco che mi faceva sentire in pace con me stesso.
C'era meno gente del solito, forse perché i turisti hanno cambiato idea e hanno deciso di andarsene. (Frasi del genere ci stanno bene, per chiudere un post quando non si ha granché da dire. Non ricordo quello che volessi scrivere, quando ho iniziato a scrivere. Ma è vero, a quanto ho visto, che le cose più grandi si fanno senza avere idee in proposito... Insomma, sono discorsi da mezzanotte passata. Adesso è l'ora che mi sdrai sul letto maltese, e qui chiuda gli occhi).
martedì 10 agosto 2010
10 AGOSTO 2010 (morning)
La vita scorre troppo in fretta, e me ne accorgo nei momenti in cui ho cose stupide da fare.
Questa mattina, dopo il plum-cake, ho pensato a quel che mi avrebbe atteso durante la mattinata. Assolutamente nulla, fuorche' perdite di tempo per le quali non son neppure retribuito. (Questa tastiera maltese non ha gli accenti, e cosi' dona un che di esotico al linguaggio).
Sto pensando allo ieri, ma non perche' io sia una persona particolarmente riflessiva. Si tratta di questioni importanti: l'amore, il futuro, insomma, avete capito, quelle cose con cui tutti si ha da fare e che spesso entrano di prepotenza nei blogs, complici anche le strategie del web marketing.
E invece qui si parla di cose serie.
Non so se faccio bene a parlare delle mie cose sul web... C'e' l'impressione che persone poco simpatetiche possano leggere i miei stati d'animo, e non comprendere le sfumature di certe mie angoscie, di certe solitudini che vogliono restare tali, di certi scompensi emotivi che si traducono in reazioni quasi opposte.
Percio', faro' il possibile per dissimulare quel che e' giusto che resti soltanto mio.
Sono fermamente contrario all'esteriorizzazione. Credo che le cose belle siano belle perche' noi siamo capaci di cogliere e godere di questa bellezza. Ma qui si tratta di un rapporto personale, che non e' possibile condividere se non in una piccola misura.
Adesso, mi rendo conto pero' di aver travisato il discorso da cui ero partito. Non ricordo cosa volessi dire. Mi appresto adesso a bere un altro caffe', che stavolta e' il caffe' istantaneo. Qua a Malta un buon espresso e' difficile da trovare.
Questa mattina, dopo il plum-cake, ho pensato a quel che mi avrebbe atteso durante la mattinata. Assolutamente nulla, fuorche' perdite di tempo per le quali non son neppure retribuito. (Questa tastiera maltese non ha gli accenti, e cosi' dona un che di esotico al linguaggio).
Sto pensando allo ieri, ma non perche' io sia una persona particolarmente riflessiva. Si tratta di questioni importanti: l'amore, il futuro, insomma, avete capito, quelle cose con cui tutti si ha da fare e che spesso entrano di prepotenza nei blogs, complici anche le strategie del web marketing.
E invece qui si parla di cose serie.
Non so se faccio bene a parlare delle mie cose sul web... C'e' l'impressione che persone poco simpatetiche possano leggere i miei stati d'animo, e non comprendere le sfumature di certe mie angoscie, di certe solitudini che vogliono restare tali, di certi scompensi emotivi che si traducono in reazioni quasi opposte.
Percio', faro' il possibile per dissimulare quel che e' giusto che resti soltanto mio.
Sono fermamente contrario all'esteriorizzazione. Credo che le cose belle siano belle perche' noi siamo capaci di cogliere e godere di questa bellezza. Ma qui si tratta di un rapporto personale, che non e' possibile condividere se non in una piccola misura.
Adesso, mi rendo conto pero' di aver travisato il discorso da cui ero partito. Non ricordo cosa volessi dire. Mi appresto adesso a bere un altro caffe', che stavolta e' il caffe' istantaneo. Qua a Malta un buon espresso e' difficile da trovare.
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